In Europa si respira aria di ripresa, o meglio di «ripresina». Per lItalia, tuttavia, potrebbe essere difficile agganciarla se non ripartono anche i consumi interni, visto che iniziano suonare alcuni campanelli dallarme sul commercio internazionale e quindi sullexport che, finora, ha garantito quanto meno un freno alla recessione.Nel secondo trimestre 2013, dunque, la Germania ha segnato un aumento del Pil dello 0,7% e la Francia dello 0,5%. Anche il piccolo, e malconcio Portogallo ha messo a segno un incremento del Pil (nellarco dei tre mesi) dell1,1%. Alcu¬ni, Italia inclusa, battono ancora la fiacca. Complessivamente, in ogni caso, per lEurozona il secondo semestre viene considerato quello dello svolta. O meglio: della «svoltina».Come può lItalia salire sul treno, per quanto lento si muova? Numerosi analisti puntano ancora una volta sullexport, che negli ultimi mesi ha fatto segnare crescenti surplus alla bilancia commerciale (marcatamente in deficit, invece, per buona parte del 2012). Senza sminuire il ruolo del commercio internazionale, e specialmente dellexport, in alcune categorie merceologiche, è lecito nutrire qualche dubbio che lItalia possa tornare al modello di crescita trainata dalle esportazioni, pur caratteristica non solo dellormai lontano «miracolo economico» ma anche della strategia che negli Anni Ottanta permise di ridurre dra-sticamente linflazione mantenendo buoni tassi di sviluppo.
Ciò per ragioni sia interne sia internazionali. A metà agosto, partendo da queste ultime, lAnnual Review of Economics ha diramato un saggio il cui titolo fa accapponare la pelle: «The Great Trade Collapse» («Il Grande Tracollo del Commercio»). Ne sono autori Rudolfs Bems (Fondo monetario e Bce), Robert Johnson (Darmouth Colle) e Key Mu Yi (Federal Reserve Bank di Minneapolis), tre «autorità» del ramo. Individuano la principale determinante del «collasso» nella riduzione delle spese aggregate per beni durevoli oggetto di commercio internazionale e in un aggiustamento «massiccio» delle scorte accumulatesi in questi anni. E Il 18 luglio scorso preoccupazioni simili venivano espresse (in linguaggio più elegante) nel rapporto annuale dellOrganizzazione mondiale per il commercio ( Wto). Sul fronte interno, anche il ministero dello Sviluppo economico esprime preoccupazioni: nonostante abbiamo filiere di eccellenza nellagroalimentare e nellalta moda, negli ultimi dieci anni la nostra quota del commercio mondiale si è quasi dimezzata. Specialmente a ragione della contrazione (e della perdita di competitività) dellindustria manifatturiera: nel 2008-2010, la produzione industriale ha subito una riduzione, in valore, del 24%; dopo una stasi nel 2010, è ricominciata una caduta dal 2011 che sembra a ruota libera. Rispetto al 2007, allultima conta la produzione industriale ha segnato una diminuzione del 26% . Settori e aziende che negli Anni Settanta erano «casi di successo » nelle migliori business schools americane ed europee oggi corrono ai tavoli dellunità di crisi in funzione presso il ministero dello Sviluppo: Indesit, Candy, Ignis e Zanussi nel comparto degli elettrodomestici e delle apparecchiature per la casa un tempo marchi ricercati dalla stessa Regina dOlanda. Anche sulla moda meglio non farsi illusioni: loutput del settore tessile è diminuito del 35% in cinque anni. In breve, se il manifatturiero in senso lato non ritrova lo slancio competitivo di un tempo difficile pensare che lexport possa fare da catena di trasmissione ad una «ripresina » di cui comunque sapranno trarre vantaggio alcuni comparti specifici. In effetti, come hanno argomentato quattro anni fa, Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan (vice-segretario Generale dellOcse) nel saggio «LEconomia Europea tra Crisi e Sfide Mondiali» è sulla domanda interna (e, quindi, sul potere dacquisto interno) che occorre puntare (oltre che su miglioramento di produttività e di competitività). Per questo si rendono sempre più urgenti interventi in materia di politica industriale, cuneo fiscale-contributivo, produttività e competitività. Altrimenti lItalia rischia di stare in panchina a guardare la «ripresina» altrui.
La Wto ipotizza un brusco stop per lo smaltimento scorte
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