• domenica , 22 Dicembre 2024

la via emiliana all’industria come crescere nonostante la crisi

«L’ industria a Bologna ha mantenuto una posizione forte grazie alla presenza di aziende tecnologiche che esportano. Ci sono stati passaggi proprietari, ma è rimasto uno zoccolo duro di imprese prevalentemente meccaniche». Alberto Vacchi, presidente e amministratore delegato di Ima, è il presidente di Unindustria Bologna. Quindi in questa provincia la crisi non ha colpito. «Non si può vivere di solo export. Una grande quota dell’economia bolognese si basa sui consumi interni e sull’edilizia, che si è completamente fermata. Se non ripartirà rapidamente gli effetti sull’occupazione saranno significativi». L’Ima però non ha sofferto. «L’Ima come tutto il comparto dell’industria per il packaging sta avendo buoni risultati. Chi ha investito in tecnologia e internazionalizzazione ha di fronte un mondo che non è in fase recessiva. Ima è cresciuta del 10 per cento nel 2012 e sta continuando su questi ritmi nei primi due mesi di quest’anno». G r a z i e a l l’export? «Mediamente esportiamo il 94 per cento del prodotto, ma anche la quota italiana non recede perché gli ordini arrivano p e r l o p i ù d a multinazionali che producono nel nostro paese». Quali sono i motori della vostra crescita? «La crescita organica, che è trainata dall’innovazione tecnologica e, da qualche tempo a questa parte, anche la crescita per linee esterne. Tre anni e mezzo fa, essendo leader nel packaging farmaceutico e avendo il 70 per cento del mercato mondiale del packaging del tè, abbiamo deciso di diversificare in altri comparti, segnatamente l’alimentare, e abbiamo cominciato a fare alcune acquisizioni mirate. Con la Gima, che opera nelle cialde da caffè e in altri settori, con una joint venture con la Sacmi per tutta la filiera del cioccolato, con la Corazza in altri comparti come i dadi da brodo e i formaggi molli, dove il packaging aggiunge valore al prodotto e la nostra cultura farmaceutica della non contaminazione e della sicurezza del prodotto è un grande fattore competitivo». Vi siete fermati? «L’ultima acquisizione è di pochi giorni fa, abbiamo rilevato il 40 per cento, con la possibilità di ottenere la maggioranza assoluta del gruppo Ilapak, un gruppo svizzero con stabilimenti in vari paesi. Continueremo su questa strada». Come finanziate questa espansione? «Da quando siamo entrati in Borsa nel 1995 con un piccolo aumento di capitale, allora facevamo 70 milioni di fatturato, siamo cresciuti di dieci volte con l’autofinanziamento e i flussi di cassa. Nel 2012 il free cash flow è di circa 70 milioni che utilizziamo per remunerare gli azionisti con rendimenti interessanti e finanziare lo sviluppo. Non è nella nostra cultura ricorrere massicciamente al debito». Ma avete appena emesso obbligazioni in dollari per 50 milioni. «E’ un private placement che abbiamo deciso di fare per prendere confidenza con strumenti finanziari nuovi, per allungare il debito e diversificare le fonti di finanziamento. Oggi chi può è bene che vada direttamente sul mercato per lasciare le poche risorse creditizie disponibili alle piccole aziende, che del credito bancario hanno immenso bisogno». Ma il credito langue e gli imprenditori non sembrano così disposti a mettere nelle aziende capitale proprio. «I bolognesi lo stanno facendo, stanno mettendo risorse proprie per reggere in questi anni difficili e rilanciare le loro aziende. Anche se la domanda che tutti si pongono è: ha senso che io continui a credere in uno sviluppo industriale in Italia?» Qual è la sua risposta? «Ha senso, almeno in settori che hanno livelli tecnologici significativi. Ma la solitudine in cui ci si trova rende tutto oggettivamente più difficile». Cosa si aspetta dall’assetto politico che uscirà dalle elezioni? «E’ necessario confermare la credibilità che l’Italia ha riconquistato nello scacchiere europeo e ridare al sistema paese sulla scena internazionale una forza pari a quella della Germania». Di cosa ha bisogno l’impresa? «Flessibilità, non tanto in entrata e in uscita ma nella fabbrica al fine di aumentare la produttività, regole chiare e stabili, una tassazione equa, che liberi risorse per il lavoro. E poi le tante altre cose che sappiamo, dalla formazione alla ricerca. Noi abbiamo assunto in quest’area un centinaio di persone lo scorso anno e continueremo, ma la difficoltà a trovare le competenze giuste è enorme. Bisogna rilanciare la formazione tecnica, e ho visto qualche buon segnale. E poi ci vuole una politica industriale». Non tutti sono d’accordo, i liberisti sostengono che la politica industriale la fa il mercato. «Bisogna credere nella manifattura, un paese non è ricco se perde di vista la manifattura, che porta con se innovazione e servizi a più alto valore. Ma dobbiamo prendere atto che ci sono settori che non ha più senso tenere in Italia mentre ce ne sono altri che non ha senso delocalizzare. Questi processi vanno accompagnati. Navigare a vista, come si è fatto finora, non aiuta le imprese e non aiuta il paese». Cosa suggerirebbe? «In Germania lo Stato, le imprese, il sindacato e le banche si sono uniti per realizzare un progetto comune. Un pochino noi lo abbiamo fatto da queste parti, ma è tutta l’Italia che ne ha bisogno». Voi di sindacato avete soprattutto la Fiom. «Negli anni abbiamo costruito un dialogo, non mancano gli scontri e i contrasti ma il rapporto è aperto. E’ sempre un grandissimo valore avere una controparte sindacale unitaria, non frammentata, con la quale trovare soluzioni». Come immagina l’Ima del futuro? «Nel 2015 dovremmo essere intorno al miliardo di fatturato. Continueremo a crescere, perché è vitale per mantenere un alto livello di competitività, e a mantenere un forte radicamento con il territorio e con i nostri subfornitori che dobbiamo aiutare a crescere e ad aggregarsi. Saremo una azienda sempre più strutturata e manageriale, già oggi la presenza familiare è ridotta a tre persone, e non altereremo il nostro rapporto tra debiti e patrimonio».

Fonte: Repubblica del 25 febbraio 2013

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