Telecom? Pronta a ripartire. Il futuro della telefonia? Venire a patti con Internet. L’Italia? Come la nobiltà decaduta che affitta palazzi per sopravvivere. Il manager vuota il sacco.
Per tre anni ha ricevuto più critiche che elogi. Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia, è stato descritto come un “catenacciaro”, capace solo di giocare in difesa come le squadre di Giovanni Trapattoni. E riluttante a lanciarsi in grandi avventure, ad abbracciare grandi progetti. Per esempio, lo scorporo della rete fissa e l’avvio di un colossale investimento nella rete in fibra ottica di nuova generazione.
Adesso Bernabè attende serenamente l’ora del giudizio. Tra pochi giorni gli azionisti che controllano Telecom Italia presenteranno la lista del nuovo consiglio di amministrazione da cui, in teoria, potrebbe essere escluso. Ma con ogni probabilità Bernabè sarà confermato. La sua “linea”, tirate le somme, ha vinto: gravata dai debiti e senza la possibilità di ricorrere al mercato per raccogliere capitali, Telecom Italia è riuscita a mantenere una buona redditività (che ha consentito di ridurre l’indebitamento), tagliando i costi (il personale in Italia si è ridotto in tre anni da 64.800 a 56.300 unità) e concentrandosi su due importanti mercati esteri (Brasile e Argentina) in forte crescita.
In questa intervista a “l’Espresso” Bernabè, 63 anni, un passato alla Fiat e all’Eni, parla di Telecom Italia, del suo futuro e di un’Italia che, oltre a non attrarre investimenti, rischia di perdere pezzi importanti del suo tessuto manifatturiero come la Fiat.
Se fosse nel patto di sindacato degli azionisti che controllano Telecom proporrebbe la sua riconferma?
Non sta a me dirlo. Spetta agli azionisti decidere. E hanno tutti gli elementi per farlo.
Il debito è ancora alto anche se nel 2010 è sceso più rapidamente che in passato. Si può considerare un problema risolto?
Negli anni precedenti il 2010 alcune partite fiscali hanno assorbito cassa. Inoltre abbiamo dovuto far fronte al caso Sparkle (l’inchiesta giudiziaria che ha fatto emergere una frode fiscale da parte della controllata Telecom e di Fastweb, ndr). Nel 2010 la riduzione è stata significativa e da qui in avanti potremo generare cassa in modo sufficiente a riportare il rapporto tra Mol (Margine operativo lordo) e debito netto a un livello normale. Quindi la risposta è sì: il problema debito si può considerare risolto. E non ci fa paura nemmeno un eventuale rialzo dei tassi perché il nostro debito è per il 65 per cento a tasso fisso.
Il futuro di Telecom Italia è fare più soldi in Sud America, tra Brasile e Argentina, e difendere fin dove possibile le posizioni in Italia dove comunque si guadagna sempre meno?
� vero che in Italia la concorrenza è forte e la pressione sui prezzi è enorme. Il mercato ristagna in quasi tutti i suoi segmenti. Noi lavoriamo per riposizionare l’offerta e per dare così un impulso alla domanda. Ma finché l’economia non si riprende è difficile trarre benefici dal mercato interno. L’unica strategia possibile è ridurre i costi, come abbiamo fatto finora.
Le compagnie telefoniche, che lei rappresenta come presidente dell’Associazione degli operatori di telefonia mobile (Gsma), hanno lanciato un’offensiva contro i cosiddetti “over the top”, ovvero le società, come Apple, Facebook e Google, che smistano il traffico sulla rete ricavandone grandi profitti. A che cosa può portare questo confronto?
Negli ultimi anni le telecomunicazioni sono cambiate: si è verificata una dissociazione tra hardware e software, con una crescita impetuosa del software. L’intelligenza tende a spostarsi dal centro alla periferia, dalla rete verso la produzione di terminali, di software, di contenuti. ? come passare da un mondo tolemaico a un mondo copernicano. Questo potenziale è stato interpretato in modo brillante e innovativo da società come Apple e Google, gli over the top. Apple, in particolare, ha costruito un sistema chiuso che ruota intorno all’integrazione tra hardware, sistemi operativi e contenuti. Un modello geniale che ha avuto le sue difficoltà ma che si è rivelato di successo.
Quindi le compagnie telefoniche come Telecom Italia adesso sono costrette a inseguire…
La verità è che gli over the top hanno costruito dei monopoli: le cinque più importanti hanno l’80-90 per cento del mercato. Le società telefoniche, invece, sono frammentate: quelle attive nel mobile sono più di 800. La differenza fondamentale è che noi siamo soggetti a una regolazione impegnativa che riguarda tra l’altro la sicurezza e la privacy, loro no. Questa asimmetria non può durare.
Al momento sono gli over the top ad avere il coltello dalla parte del manico.
� vero, ma le società telefoniche non sono indifese. Il mercato è ricco di opportunità: forse conviene a tutti sedersi intorno a un tavolo per consentire a ciascuno di ritagliarsi un ruolo.
Come mai queste macchine da soldi nascono tutte in America?
Il governo Usa ha fatto una politica industriale a loro favore. Ha creato condizioni favorevoli e li sostiene attivamente. Non tanto sussidi quanto supporto politico: gli over the top sono il gioiello dell’alta tecnologia, con tutto quanto ruota intorno a quel mondo, dai microprocessori in su.
Perché l’Europa non è riuscita a fare altrettanto?
Negli anni ’80 e ’90 la politica industriale europea ha favorito il grande successo del Gsm, lo standard comune della telefonia mobile che ha conquistato il mondo intero. L’industria europea per due decenni ha dominato il pianeta. Poi sono prevalsi altri interessi, in particolare la tutela del consumatore. In Europa le lancette si sono spostate tutte in quella direzione. Il cittadino consumatore ha avuto la meglio sul cittadino produttore. Si è dimenticato, però, che se il cittadino produttore non guadagna un reddito adeguato non può permettersi di consumare. E così l’industria europea è stata spiazzata dai nuovi concorrenti, soprattutto cinesi, che sono innovativi, possono contare su un esercito di ingegneri e sono sostenuti dal governo.
Gli Stati Uniti, la Cina… e l’Italia? Da noi tutti scappano: la Fiat, la Exor, le multinazionali che non investono più. Perché?
Non è strano. Il mercato italiano non cresce più. E poi ci sono troppi vincoli, troppe tasse. Il peso del settore pubblico è eccessivo e il mercato del lavoro continua a essere rigido.
Ma come? Sono state fatte tre riforme e, secondo gli standard internazionali, il mercato del lavoro italiano è a metà delle classifiche sulla flessibilità.
Non è sufficiente. Dobbiamo fare come Gerhard Schroder nel 2003 quando la commissione Hartz ha riformato alla radice il mercato del lavoro tedesco. Dobbiamo ridurre le tasse, ma possiamo farlo solo se riduciamo la spesa. Abbiamo cinque livelli di governo che soffocano il paese, alimentando una classe politica improduttiva. Sarà uno slogan abusato ma serve una rivoluzione liberale: semplificare i livelli di governo, ridurre le imposte, diminuire la burocrazia, far funzionare la giustizia civile. Il guaio è che ormai lo sanno tutti quello che bisogna fare. Eppure non si fa.
Per questo la Fiat scappa?
La Fiat ha preso le sue decisioni. Telecom Italia aveva scelto un’altra strada: non scontro, ma confronto con il sindacato. Confronto anche duro ma che alla fine si è rivelato produttivo.
Intanto la grande industria in Italia sembra destinata a estinguersi.
L’Italia si è impoverita, il ceto medio si è indebolito. Lo Stato è povero, quindi gli investimenti pubblici non aumentano. E non ci sono grandi ricchezze private, quindi gli investimenti privati sono pochi. L’Italia mi ricorda la nobiltà romana decaduta che affitta i suoi bei palazzi ai turisti per sopravvivere.
Eppure le statistiche ci dicono che l’Italia rimane seconda in classifica, nel mondo, come produzione industriale pro capite. Solo la Germania ci precede. Vuol dire che la nostra vocazione manifatturiera è integra?
Il problema non è la fotografia della realtà di oggi ma la dinamica: la Cina, l’India vanno a una velocità tale che ci mettono pochi anni a superarci in qualsiasi classifica. Personalmente ritengo che una “specializzazione” manifatturiera sia un handicap perché i nuovi concorrenti, come la Cina, hanno costi più bassi nonché mercati interni più grandi e in crescita. Un paese piccolo come il nostro deve trovare nicchie dove componenti immateriali come il brand o il design possono avere un ruolo importante. E allora occorrono una scuola che funzioni, università ad alto livello, capacità creativa. Una scarpa italiana può costare 50 volte quella cinese: è così che si aumenta il valore aggiunto, che si crea reddito e ricchezza. In un mondo globalizzato le nicchie diventano mercati di massa.
In questo contesto che parte può recitare Telecom Italia nel futuro?
Innanzitutto può e deve far bene il suo mestiere. Ma il sistema Italia deve avere una forte presenza all’estero. Negli anni ’50, fino agli anni ’70, lo sviluppo italiano si è basato anche su una forte espansione internazionale. In America latina c’erano solo le grandi imprese italiane. Poi hanno venduto, si sono ritirate. Ma per un’economia sana è decisivo avere una forte presenza oltre confine. E in questo senso è positivo che sui ricavi di Telecom Italia il peso dell’estero sia cresciuto dal 17 al 30 per cento in questi anni.
La versione di Bernabè
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