Non sarà l’eventuale accordo sulla flessibilità dei parametri Ue a portarci fuori dalle secche della crisi che sta da tempo attanagliando l’economia italiana ed europea.
Come è stato molte volte ripetuto la flessibilità dei parametri è prevista dagli accordi sottoscritti dai paesi europei, a cominciare dall’intesa sul Fiscal Compact. Da questo punto di vista sarebbe sufficiente procedere con le riforme di cui si parla da tempo e sulle quali c’è ormai ampia convergenza, per ottenere le deroghe necessarie.
Il premier Matteo Renzi ha fatto peraltro dichiarazioni assai più impegnative che non quelle sulla flessibilità, quando ha affermato che occorre fronteggiare la grande sfida rappresentata dall’esigenza di ritrovare l’anima dell’Europa e riportare fiducia e speranza nell’Unione europea. È un’indicazione su cui non si può non consentire. Per tradurre questa dichiarazione in fatti occorre però partire dalla constatazione che l’Europa e l’Italia in particolare stanno attraversando una fase, ormai lunga, in cui recessione e bassa crescita sono accompagnate da elevata disoccupazione, aumento delle povertà e delle disuguaglianze. Da questa situazione non si esce acquisendo un qualche margine di flessibilità dei parametri di Maastricht anche se questo margine è auspicabile.
Gli indicatori più recenti dicono che perfino l’economia tedesca conosce un periodo di rallentamento. Ciò accade nonostante la Germania abbia continuato in questi anni a sviluppare la sua integrazione verso i paesi dell’est Europa con investimenti in piattaforme produttive ad alto rendimento e basso costo del lavoro che hanno molto contribuito alla sua crescita e a quella dei paesi verso cui si sono diretti questi investimenti.
Le imprese tedesche hanno da tempo delocalizzato gli stadi a maggior intensità di produzione nei paesi europei dell’est e hanno da qualche tempo cominciato ad allargare questa presenza anche nei settori IT e in quelli high skill. Non così hanno fatto i paesi “periferici” della Ue che sono rimasti, si veda il caso dell’Italia e della Francia, legati al loro tradizionale modello di internazionalizzazione.
Nonostante queste importanti scelte strategiche la dinamica della produttività della Germania è rimasta indietro rispetto a quella del Giappone e degli Usa che è ripartita con molta decisione dopo la recessione del 2008. E ancor più è rimasta indietro la produttività media dell’Ue.
Ecco perché una scelta su cui puntare, nel quadro del “nuovo manifatturiero” che avanza, è quella di una politica industriale europea a cui il nostro paese avrebbe grande vantaggio ad associarsi, puntando a una destinazione prioritaria in questa direzione dei fondi del programma Juncker da 100 miliardi l’anno.
Allo stesso tempo il nostro paese dovrebbe puntare su investimenti ad altissimo effetto moltiplicativo sul reddito e a forte innovazione come quelli che si possono realizzare, senza aumenti di spesa, con un impegno su grande scala sull’efficienza energetica degli edifici pubblici. Né vanno dimenticati per il loro impatto su reddito e occupazione, su cui assai opportunamente insiste il ministro Dario Franceschini, gli investimenti sui beni culturali in cui tanti giovani potrebbero trovare un’occasione di lavoro nel programma europeo di young guarantee.
Tutto questo non potrà però funzionare se in Europa non si metterà in moto un processo che dia alle politiche macro e microeconomiche la sintesi necessaria a conseguire risultati adeguati in termini di occupazione e giustizia sociale. Perché il nostro governo non chiede che nell’Ue ci sia un responsabile istituzionale, chiamamolo “Mr. Growth”, presso cui si concentrino le tante azioni che in Europa sono in principio rivolte allo sviluppo, ma che debbono avere il coodinamento e la finalizzazione necessaria a che diventino efficaci?
Fonte: Il Sole 24 Ore - 26 Luglio 2014