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La storia dimostra che il progresso civile ed economico dell’ex regno di Napoli è arrivato dopo l’Unità:prima la provincia era profondamente arretrata

Fino all’ultimo periodo borbonico, il Banco di Napoli era l’unica banca del Paese, senza succursali. “Ai cittadini di Reggio che ne chiedevano una per la loro città – scrive G. Galasso (La disarticolazione di Napoli dal Mezzogiorno, in Ventunesimo Secolo numero 20, ottobre 2009, Rubettino) – Ferdinando IV la sconsigliava, esprimendo il paterno parere che le banche servissero solo ad affliggere la gente facendo dilagare l’uso delle cambiali”.
Vale la pena di ricordarlo oggi, a fronte delle descrizioni di una Napoli della prima metà dell’ottocento già avanti in un percorso di protoindustrailizzazione, con la sua ferrovia, i suoi cantieri e le sue manifatture. Descrizioni secondo cui sarebbe “stato una choc vedere la trasformazione di colpo, con l’annessione del Regno delle due Sicilie, di Napoli da grande capitale europea a prefettura sabauda”, come diceva Giulio Tremonti nell’ultimo convegno di Confindustria a Capri.
La storia narra di una realtà diversa; consente di cogliere permanenze nel tempo di impressionante durata; fornisce non solo spiegazioni del passato ma insegnamenti per il futuro. Come altri Paesi che, affamando i loro cittadini, raggiungono grandi risultati concentrando tutte le risorse su un prestigioso obbiettivo, così anche Napoli, nei tre secoli precedenti l’unificazione, era cresciuta tenendo le province in condizioni di vita miserrime, concentrando nella capitale le funzioni amministrative, esentando i cittadini dalle tasse, concedendo ai commercianti del privilegio del foro, assicurando rifornimento annonario e pane a prezzo politico. Napoli, già dal 1550 prima città italiana e seconda in Europa dopo Parigi, alla fine del ‘700 era una splendida capitale: ma “il Regno di Napoli [era] un corpo mostruoso, poiché la popolazione e l’aggregato delle cose che nella testa o sia nella capitale si reggono sono pur troppo sproporzionate a riguardo del restante del corpo”. (Giovambattista Maria Jannucci ). “La capitale divora il Regno – scriveva Antonio Genovesi – ci è troppa disuguaglianza del flusso e del riflusso tra la metropoli e le province”. Bonaparte e Murat ridimensionano i privilegi fiscali e le rendite parassitarie di Napoli: ma con la restaurazione dei Borboni ritorna la sperequazione tra province e capitale.
Fu invece proprio dopo l’unificazione, negli anni dal 1860 al 1915, che la città di Napoli, “fu insieme ancora sentita e vissuta […] come forse non era mai stata, come una grande città italiana non solo imprescindibile, ma determinante nel quadro della vita della nuova Italia” (Galasso). Come si generò questa euforia espansiva?
La patologia della capitale aveva comunque dato vita ad una dimensione metropolitana, che attirava investimenti dal Nord dell’Italia e dall’intera Europa, soprattutto nella produzione e distribuzione di energia elettrica. La legge speciale per Napoli del 1904, voluta da Francesco Saverio Nitti cavalca l’onda degli interessi di mercato, ha effetti pro ciclici, e ne amplifica gli effetti: sei anni dopo, si apre l’Ilva, nasce l’Ente Autonomo Volturno, si consolidano la Sme e la Società pel Risanamento di Napoli. Ma la lungimiranza di Nitti non sarebbe stata sufficiente senza una classe dirigente contaminata dall’arrivo di imprenditori e manager dal resto del mondo, che riesce a combinare spinte del mercato e opportunità della legge. Emblematica la coppia Maurizio Capuano e Giuseppe Cenzato. Laureato nel 1904, Cenzato inizia la professione nella Gadda & C. Giunto a Napoli per installare una turbina a vapore nella Società Napoletana per le Imprese Elettriche, innamoratosi dello stile di vita della capitale, ne diventa direttore tecnico nel 1912 chiamatovi da Massimo Capuano. Nato nel 1865, avvocato e banchiere, Capuano aveva guidato la Banca Generale della Penisola Sorrentina; con il sostegno della finanza internazionale, aveva creato la Societa’ per la Illuminazione e Riscaldamento col Gas e, pochi anni dopo, la Societa’ Meridionale Elettrica, la mitica SME. Capuano coinvolge Cenzato, come molti altri, in questa avventura industriale e, nel 1927, gli passa il testimone di amministratore delegato della SME.
Questo equilibrio, basato sulla relazione tra le grandi banche internazionali, i centri di competenza tecnologica, i talenti organizzativi locali e la rete degli interessi diffusi nella comunità, si rompe con la crisi del 1930.
L’IRI fa sperare di poter essere la continuazione di quel modello. Nel 1937 Cenzato, presidente della SME ha al suo fianco come vice presidente Alberto Beneduce, casertano, deputato socialista nei primi anni del ‘900, collaboratore di Nitti. Francesco Giordani, professore di chimica nell’Università di Napoli, diventerà vicepresidente dell’IRI ed animatore, con Menichella e Saraceno, del movimento per il riscatto del Mezzogiorno: un obbiettivo a cui l’IRI indirizzerà una quota dei propri investimenti crescenti mentre il resto d’Italia, dopo la seconda guerra mondiale, dava vita al miracolo economico. Ma le eredità pesano: come aveva scritto Gaetano Filangieri, le capitali sono un “sepolcro grandioso che una moribonda nazione innalza e ingrandisce”. La politica di drenare a vantaggio della capitale le risorse dalle province, ne aveva impoverito il tessuto economico, difficilmente potevano sorgervi iniziative imprenditoriali di qualche rilievo. L’intelligenza degli attori privati, da Cenzato a Capuano a tanti altri, e la lungimiranza di Nitti e Beneduce avevano garantito lo sviluppo nel trapasso dell’ottocento al novecento. Ma nella successiva gestione democristiana, quando i “manager nittiani” lasciano il passo ad altri, si sfilaccia la partnership virtuosa tra pubblico e privato: l’IRI e l’intervento straordinario diventano progressivamente un disegno statale della crescita, l’amministrativizzazione della politica economica. Con il che il sogno meridionalista diventa cronaca di una dilagante, quanto inefficiente, presenza di politiche inconcludenti alimentate da volumi crescenti di spesa pubblica.
Il nuovo meridionalismo dovrebbe trarre insegnamento dalla storia passata, dagli isolati splendori e dalle debolezze diffuse, dalle inevitabili derive degli interventi decisi dal centro. Coerentemente dovrebbe ridurre la presenza dello Stato, e delle sue invadenti moltiplicazioni, dalle regioni agli enti locali. E ridare invece voce alla imprese, alle associazioni, alle banche ed all’intelligenza strategica della politica piuttosto che alla sua degenerazione amministrativa.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 26 novembre 2009

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