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La storia degli Stati Uniti d’America per salvare l’euro

Ho avuto l’onore di parlare alla Lezione Federico Caffè alla Università la Sapienza di Roma, tornando, con grande emozione, nella mia Alma Mater. Nel pomeriggio di quella giornata, Mario Draghi. Che argomenta con forza: «L’unione monetaria deve evolversi verso modelli con minore sovranità nazionale su politica economica, verso politiche comunitarie». Eccoci. Bisognava ascoltarla questa frase chiave. Si dirà un giorno: «Io c’ero, quel giorno»? Speriamo di no. Ho sostenuto che una delle più importanti novità che dovremo di dibattere nei prossimi mesi è il futuro di una area monetaria comune. E i partiti di opinione già si sono schierati: da un lato, una parte della stampa anglosassone e del suo sistema, che celebra già la fine del progetto. Speriamo abbiano torto. Dall’altro, gli istituzionalisti spinti, che chiedono un rilancio con la creazione degli Stati Uniti d’Europa, con la quale forse intendono una politica fiscale centralizzata a Bruxelles. Speriamo non passino: richiederebbe anni di distrazioni che porterebbero via l’attenzione dai problemi pressanti dell’oggi. Tutto deve avere un suo tempo, ci sarà anche quello essenziale per un’Europa unita ma la gatta frettolosa_
È possibile salvare il progetto geopolitico di area monetaria comune senza finire tra le forche caudine di una di queste due alternative? Ci sono importanti aree monetarie che hanno, al loro interno, parti con bassa produttività ed altre ad altissima produttività. Parlo di Tennesse ed Alabama da una parte e Massachusetts e California dall’altra. Certo, gli Stati Uniti sono un’area a lingua comune e alta mobilità del lavoro. E certo, è vero che hanno un bilancio federale ampio, con grandi trasferimenti impliciti in caso di recessione di un’area. Che noi non abbiamo. Ma è un bilancio, quello federale Usa, che si è ampliato fortemente solo dopo 150 anni di vita in comune, con le politiche del New Deal di Roosevelt.
Prima, quando gli Stati negli Usa erano forti, cosa avveniva? Tra il 1820 ed il 1830 gli Stati Usa cominciano ad effettuare, indebitandosi, ampi investimenti pubblici in canali, ferrovie, infrastrutture. Nei primi anni Quaranta del diciannovesimo secolo, nove stati fecero default sui loro debiti, e tre entrarono in rinegoziazioni sostanziali. Gli Stati Uniti sopravvissero ma il messaggio dovette essere chiaro: i mercati non venivano salvati se sbagliavano a prestare agli stati. Pian piano, nel corso dei decenni, anche a costo di guerre drammatiche, gli Stati Usa si avvicinarono fra di loro (culturalmente più che economicamente) ed, in ultima analisi, finirono appunto per centralizzare largamente la loro politica fiscale.
Dico questo solo per ricordare che l’aver prima aiutato il crescere drogato del debito privato e pubblico greco, e il non avere poi consentito il default greco, se l’area dell’euro si dovesse sfaldare, si rivelerà il più grave errore nella gestione di questa nostra crisi. Ma lo dico anche per sostenere fortemente la possibilità di restare uniti senza cedere ulteriore sovranità di politica economica, un rischio che pagheremmo caro, credo.
Una volta che la Grecia sarà uscita o (speriamo!) con una Grecia miracolosamente dentro ancora, come possiamo pensare di guadagnare il tempo necessario per superare questa crisi? Riavviando la crescita con politiche fiscali espansive. Ma per far sì che in uno stato di così profonda crisi si ristabilisca il clima giusto per la sopravvivenza dell’euro è necessario calmierare i mercati finanziari dandogli certezze. Certezze che sono svanite da tempo. Svanirono quando si decise (con gli aiuti alla Grecia) di dire addio al disposto del Trattato dell’Unione europea che vietava salvataggi degli Stati in default, contrariamente a quello che si fece nell’800 nei nascenti Usa. La Grecia è stata salvata a metà, con ambiguità, per poi forse vedersi lasciata sola con le sue dracme. Ma i mercati continuano a non capire quale sarà la politica della Banca centrale europea. Sarà il caso dunque di muoverci, come richiede formalmente il ministro delle Finanze polacco, verso un mondo dove la BCE sottoscriva i titoli dei paesi euro in difficoltà. A quel punto, i tassi d’interesse, con una BCE che assomiglia molto di più alla Fed americana, scenderanno perché crollerà il sospetto della fine dell’area dell’euro. Il circolo virtuoso si innescherà. La crescita ripartità, ed assieme ad essa lo spazio per le riforme. Quelle giuste. Se poi non si farà tutto questo, è possibile che la Storia giudicherà non favorevolmente chi fece arrestare il progetto europeo con l’alibi di rilanciarlo verso mete superiori.

Fonte: ItaliaOggi del 26 maggio 2012

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