La risposta tremontiana alle difficoltà delle imprese in Italia potrebbe essere una versione italiana e post-crisi del venture capital. Ma in questo caso si deve pensare fin dall´inizio a operazioni temporanee come erano quelle dell´Iri originaria.
Beati i Paesi che non hanno bisogno di salvataggi. Beati i mercati che possono fare a meno degli Stati. Beate le industrie che non vogliono i denari dei contribuenti. Potremmo dire così, anzi dovremmo dirlo, parafrasando il Galileo di Bertolt Brecht. Ma come fare i conti con un mercato oligopolistico che non garantisce l’equilibrio sia pur sempre mutevole? Come convincere imprenditori e banchieri che non si fidano, ad aprire il borsellino? Come stare al mondo, in un mondo in cui la logica di potenza prevale sulla razionalità economica e l’equità sociale?
La prima fase della globalizzazione ha dato ragione al liberismo puro e duro. È grazie alla libera circolazione di capitali, merci e uomini che il mondo ha compiuto in venticinque anni il maggior balzo in avanti dell’ultimo secolo. Poi c’è stata la crisi del 2008-2010 che allunga le grinfie ancora negli anni a venire, anche per colpa di salvataggi a pioggia. Il fardello dei debiti lo porteremo sulle spalle per l’intero decennio e anche questo non spezza una lancia a favore del neointerventismo pubblico.
La crisi non ha generato una nuova ondata di protezionismo in senso tradizionale, ma il mondo si è diviso in aree, blocchi di Paesi, zone geoeconomiche in competizione tra loro. La stessa Europa che dieci anni fa sembrava articolarsi in cerchi concentrici, con al centro l’Eurolandia, poi la Gran Bretagna e i Paesi nordici, i Paesi dell’est, i newcomer, adesso appare spaccata sempre più tra nord e sud con la Francia presa nel mezzo e angosciata dall’idea di finire nel girone mediterraneo.
In questo scenario nuovo s’innesta una politica economica che non guardi solo alla convergenza dei fattori macro (il tradizionale fine tuning) né si accontenti di garantire la stabilità monetaria, ma si occupi anche delle dimensioni micro: struttura dei mercati, concorrenza, sistemi industriali, contratti di lavoro. Tra essi c’è la proprietà delle imprese? La teoria economica, e non solo quella liberista, risponde di no. Ma che accade se il cambio di proprietà, sempre più frequente in una economia davvero aperta, provoca una fuga di energie e fattori di produzione, se non una vera e propria distruzione? Quante fusioni e acquisizioni si sono rivelate disastrose? Basti un esempio a noi vicino ormai: la Chrysler ha peggiorato la propria crisi mettendosi con la Daimler e ha rischiato davvero di scomparire. Se ne possono fare a bizzeffe, in Italia e nel mondo.
La difesa e la valorizzazione (non fittizia o clientelare) del fattore lavoro, è un criterio per valutare i processi di integrazione transnazionale nell’industria e nei servizi? Sì, rispondono gli americani che di mercato se ne intendono più di noi. L’occupazione, anzi il perseguimento del full employment, del resto, è uno dei compiti che per statuto viene assegnato alla Federal Reserve, a differenza da quel che accade alla Banca centrale europea.
Dunque, le nuove condizioni del mercato mondiale e i nuovi volti della globalizzazione, impongono di trovare risposte creative e originali. Lo sono il ritorno dell’Iri e di Mediobanca? A un decennio dalla scomparsa dell’Istituto per la ricostruzione industriale e dal ridimensionamento della banca di Enrico Cuccia, bisogna riconoscere i meriti di entrambi nell’aver trasformato l’Italia in uno dei primi dieci Paesi industriali e nell’aver consentito che un capitalismo privo di materie prime e ricco di capitalisti senza troppi capitali, sopravvivesse senza cedere alle lusinghe del rentier. Tuttavia, è chiaro che, soprattutto a partire dagli anni ’80, sia l’Iri sia Mediobanca si sono trasformati in due impalcature rigide che hanno salvato il vecchio e ostacolato il nuovo.
Per restare nella pattuglia di testa dello sviluppo, dunque, adesso abbiamo bisogno di altro. Né ci possiamo basare solo sulle multinazionali tascabili, il quarto capitalismo analizzato da Fulvio Coltorti, o le mille nicchie d’eccellenza che piacciono a Marco Fortis. Tutte realtà importanti, ma non fanno Pil, come si dice, non abbastanza. La risposta tremontiana è adeguata a colmare il gap? Il modello sembra configurarsi così: un polo pubblico che ruota attorno a Cassa depositi e prestiti, fondazioni, fondo sovrano anti-scalate. Un polo privato che fa perno su due grandi banche “di sistema”, Unicredit e Intesa, più un ritrovato ruolo di Mediobanca, meno autonoma e Generali.
Se si tratta di una pubblicizzazione surrettizia, tornando a prima del 1992 con strumenti diversi, allora è destinata a trasformarsi in una grande illusione. A meno di non alzare prima o poi barriere doganali, magari mettendo in cantiere anche una uscita dall’euro. Perché non bisogna dimenticare che l’ondata delle privatizzazioni non fu un complotto, a bordo del Britannia, della finanza pluto-giudaico-massonica, bensì la conseguenza del fatto che vennero aperte le frontiere e crollò, insieme alla lira, il modello di protezionismo liberale (come lo ha chiamato Giuliano Amato).
Se invece si tratta di scavare alcune trincee, che consentono di riorganizzare le truppe e poi ripartire in mare aperto, allora anche i liberisti dovrebbero prenderlo in considerazione. Se serve per dare un kick, per far bere il cavallo, perché no? Potrebbe essere una versione italiana e post crisi del venture capital. Ma in questo caso si deve pensare fin dall’inizio a operazioni temporanee come erano quelle dell’Iri originaria, quella di Beneduce. Insegnava Luigi Einaudi nelle lezioni tenute nel 1944, durante il suo esilio in Svizzera: «In una città assediata, in un Paese circondato da nemici il mercato non può funzionare. Perciò accade che qualcun altro, ossia il governo, debba prendere le decisioni su cosa consumare e produrre. Tengasi però presente che si tratta di eccezioni che sono approvabili e anche utili sinché sono una eccezione».
La soluzione possibile
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