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La solitudine degli ex grandi

No all’uso della forza in Libia, allarme per i rischi d’inflazione che vengono soprattutto dall’indebolimento del dollaro. Quanto agli squilibri tra le aree del mondo, più che dell’enorme deficit commerciale Usa, ci si preoccupa dell’arretratezza del Sud del mondo: il problema, insomma, non è la stagnazione dell’Occidente industrializzato, ma l’insufficiente ritmo di crescita dei Paesi emergenti. Firmato Brics (l’acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), l’associazione delle nuove potenze economiche mondiali.
Quando, a Pittsburgh nel 2009, annunciò il «depotenziamento» del G7, la «cabina di regia» euro-nippo-americana, in favore del più ampio G20, Barack Obama, ancora fresco inquilino della Casa Bianca, sperava di responsabilizzare le nuove potenze mondiali. Cercava di spingere la Cina e gli altri a uscire allo scoperto, a giocare un ruolo più rilevante in una gestione coordinata dei mercati, dei cambi, dei rapporti economici e commerciali internazionali. Con l’obiettivo di ridurre gli squilibri finanziari e favorire la costruzione di un consenso multilaterale anche sulle principali questioni politiche.
A un anno e mezzo da quel «nuovo inizio», la Cina e i suoi compagni di strada accolgono l’invito ad alzare il loro profilo, ma non si incamminano nella direzione auspicata dall’America e dagli stessi europei. Mentre a Washington il G7 finanziario non prende decisioni rilevanti e il G20 cerca faticosamente un accordo almeno verbale per non far deragliare il treno della cooperazione economica, dalle spiagge cinesi di Sanya, Brasile, Russia, India e Cina concludono il vertice dei Bric – da quest’anno allargato al Sudafrica – con una dichiarazione zeppa di parole d’ordine nette, politicamente dirompenti. Affermazioni che, più che la voglia di accomodarsi su un ponte di comando comune, denotano la volontà di «certificare» la forza di un’associazione di Paesi che fra tre anni raggiungerà il Pil degli Stati Uniti e che conta di scavalcare in meno di un quarto di secolo l’intero Occidente industriale rappresentato dal G7.
Una situazione nuova che avrà conseguenze in tutti i campi: dall’Onu dove gli emergenti vogliono pesare di più al Fondo monetario internazionale che, «iperliberista» nell’era del mondo unipolare dominato dagli Usa, si convince all’improvviso che i controlli sui movimenti dei capitali non vanno demonizzati, anzi a volte sono utili, ora che cresce il peso di Paesi emergenti che basano le loro politiche su un più elevato livello di dirigismo.
Gli Stati Uniti, indeboliti dalla loro crisi economica, non riescono a riportare il timone dell’economia internazionale su una posizione più favorevole ai loro interessi, ma sembrano consapevoli di quello che sta accadendo e qualche carta da giocare ce l’hanno: l’India, ad esempio, con la sua storia di conflitti con Pechino, non può prescindere più di tanto dalla sua alleanza economica e militare con Washington. E il Brasile, che soffre per la forza eccessiva della sua valuta, ha, proprio come gli Usa, interesse a premere sulla Cina per una rivalutazione dello yuan. Divisa sulla Libia, gli immigrati e anche su debito e politiche per la crescita, l’Europa stenta, invece, a prendere atto della nuova realtà: magari non durerà, ma oggi sembra più facile mettere d’accordo Asia e Sudamerica che i due lati delle Alpi.

Fonte: Corriere della Sera del 16 aprile 2011

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