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La sinistra non capisce che si cresce anche attraverso la flessibilità

Una parte delle opposizioni (segnatamente il Pd e l’Idv, visto che al Senato il Terzo Polo ha votato a favore) chiederanno, durante l’esame della supermanovra di ferragosto alla Camera, lo stralcio dell’articolo 8 adducendo una serie di argomenti che, ad avviso di chi scrive, sono infondati. Ovviamente il progetto di diritto del lavoro che sta alla base dell’articolo contestato è complesso e discutibile. Se così non fosse non ci troveremmo da quasi due anni a discutere del caso Fiat, senza pervenire ad una valutazione ampiamente condivisa. Onestà intellettuale vorrebbe, però, che le critiche riguardassero questioni di merito, sicuramente di valore politico, e non processi alle intenzioni prive di fondamento e accuse di gravi violazioni di diritti costituzionali che non sussistono, come cercheremo di sostenere.
In primo luogo le opposizioni pongono una domanda: perché la maggioranza insiste per approvare l’articolo 8 che, recando disposizioni volte al sostegno della contrattazione collettiva di prossimità, non ha nulla a che fare con il risanamento dei conti pubblici? La risposta è semplice: secondo il Governo le innovazioni contenute nell’articolo 8 servono a favorire quella crescita economica che viene sollecitata ad ogni piè sospinto. E’ singolare che la sinistra – che pure rivendica misure a sostegno dello sviluppo – non riesca a capire – a loro la vicenda Fiat non ha proprio insegnato nulla – che la crescita si produce anche con modelli di organizzazione e di lavoro orientati alla flessibilità, negoziati da parti sociali responsabili in grado di farsi carico delle esigenze poste dalla competizione globale. Il “pacchetto” contenuto nell’articolo 8 costituisce un contributo essenziale allo sviluppo, che è pur sempre uno degli obiettivi del provvedimento: sviluppo sicuramente favorito dalla possibilità di definire, attraverso la libera contrattazione, modelli organizzativi e produttivi flessibili ritenuti più idonei per assicurare un consolidamento della ripresa produttiva, ancora gracile ed incerta; la legge non cambia di per sé il quadro delle regole, ma si affida all’autonoma iniziativa delle parti sociali.
In premessa, è opportuno ricordare che il Senato ha modificato il testo iniziale con riferimento a diversi aspetti che avevano suscitato un’ampia discussione e non poche polemiche, tra cui la questione della rappresentanza e rappresentatività. In proposito, si segnala che il comma 1 dispone che i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda in base alla legge e agli accordi confederali vigenti (compreso, pertanto, quello del 28 giugno 2011), possano realizzare specifiche intese, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario di rappresentanza sindacale, finalizzate – è importante l’indicazione puntuale delle finalità – alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.
Il comma 2 elenca le materie inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione che possono essere oggetto delle intese. Maggiore flessibilità deve esserci – come ha richiesto anche la Bce – anche in uscita dal rapporto di lavoro. In quest’ambito ha fatto molto discutere il fatto che tali intese negoziali possono riguardare pure le “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”, ad eccezione del licenziamento discriminatorio e del licenziamento lesivo dei diritti riconosciuti alla lavoratrice. Poiché, a questo proposito, le opposizioni scomodano addirittura la Costituzione, corre l’obbligo di far notare quanto segue:
a) non si tratta di una modifica legislativa dell’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, ma le parti ricevono dalla norma un’opportunità in più che possono far valere o meno, ma che comunque è condizionata ad un’intesa sindacale (la cui validità è comunque sottoposta a procedure anch’esse concordate);
b) secondo gli ordinamenti internazionali il lavoratore ha diritto ad una tutela in materia di licenziamento, azionabile in giudizio; ma la reintegra giudiziale nel posto di lavoro è una mera modalità con cui si esercita tale tutela, al pari del risarcimento del danno che è poi la normale forma risarcitoria in materia di obbligazioni;
c) che la tutela tramite reintegra non sia un diritto inderogabile è provato dall’ordinamento giuridico che la riserva e riconosce solo ad una parte (numericamente minoritaria) del mercato del lavoro, tanto più che questa valutazione ha trovato riscontro persino in un referendum popolare del giugno 2003, che ha bocciato nei fatti, tramite il mancato raggiungimento del quorum, l’estensione erga omnes a tutti i lavoratori;
d) sembra poi non dimostrata e non sostenibile sul piano giuridico la tesi per cui l’articolo 8 prefigurerebbe, in talune sue parti, una violazione delle norme costituzionali, come sostiene solo parte dell’opposizione (atteso che alcuni gruppi che non sostengono il Governo hanno comunque votato a favore della norma al Senato). La stessa Consulta, infatti, non ha mai affermato il principio secondo cui la tutela reale ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori abbia una copertura costituzionale. Al contrario, la Corte costituzionale aveva dichiarato ammissibile (con la sentenza n. 46 del 2000) il referendum abrogativo – svoltosi nel maggio 2000 e di segno opposto rispetto a quello già ricordato – dell’articolo in questione, tra le cui disposizioni rientra anche quell’obbligo di reintegra che è il tema dell’attuale polemica.
Sempre in relazione all’articolo 8, peraltro, si osserva che il comma 2-bis, introdotto al Senato, è volto a specificare che nelle materie di cui al comma 2 le intese possono prevedere deroghe alle norme di fonte pubblica o contrattuale, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. E’ bene ricordare che la contrattazione in deroga è diffusa nei principali Paesi europei ed ha consentito – come nel caso della Germania – di rafforzare le relazioni industriali e di farne un elemento determinante della ripresa economica.
Si rileva poi che il comma 3 stabilisce che tutti i contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, siano efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto si riferisce, a condizione che il contratto medesimo sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.
Infine, si fa presente che il comma 3-bis, introdotto al Senato, prevede che le imprese ferroviarie e le associazioni internazionali di imprese ferroviarie, che espletino sull’infrastruttura ferroviaria nazionale servizi di trasporto di merci o di persone, sono tenuti a rispettare i contratti collettivi nazionali di settore, anche con riferimento alle condizioni di lavoro del personale. E, a dire il vero, questa norma non sembra allineata con quanto previsto dal resto dell’articolo.

Fonte: Occidentale del 12 settembre 2011

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