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La Sinistra denudata del caso Fiat-Chrysler

La sinistra che in Italia, non riuscendo a confezionare una ricetta per il futuro, sceglie una difesa dell’esistente che la fa apparire conservatrice, si comporta in un modo che, in sé, non è insensato né ridicolo: reagisce chiudendosi a riccio a un cambiamento dell’economia mondiale che percepisce come un’involuzione. Resistendo, cercando di conservare, pensa di rallentarla. E’ un errore e il fenomeno Marchionne — comunque si giudichino le strategie e le convenienze imprenditoriali della Fiat — offre un’occasione per correggerlo.
L’uomo che comanda a Detroit e al Lingotto non è un «amerikano»: è un manager cosmopolita che non ha ripudiato le radici abruzzesi, ma si è convinto, sulla base delle esperienze fatte all’estero, che non esistono scorciatoie italiche né «soluzioni furbe» per aggirare i problemi. Ora con la sua rude franchezza mette la classe dirigente davanti a un bivio: confrontarsi con le regole economiche del mondo d’oggi, per quanto indigeste esse possano risultare, o restare tagliati fuori dalle rotte dello sviluppo.
Che stia sollevando una questione ineludibile lo dimostra lo stesso disagio dei suoi contestatori: chi lo combatte si aggrappa al fantasma del fascismo non trovando di meglio sul terreno economico; chi riconosce che ha ragione nella sostanza ma non accetta il suo metodo arriva a parlare, con discreto sprezzo del vocabolario, di «ricatto legittimo».
Risposte contorte di persone intelligenti che testimoniano del travaglio di un’area politica che in Italia fatica a confrontarsi con una realtà diversa da quella che aveva immaginato nei suoi schemi. Del resto la resistenza al cambiamento è stata a lungo il tratto caratterizzante anche di altre sinistre occidentali, con la grande eccezione della «terza via» anglosassone di Blair e Clinton (con momentanea infatuazione dalemiana). Una «terza via» gestita, però, con imperizia a livello di governo e sfociata negli eccessi di finanziarizzazione tanto negli Usa che in Gran Bretagna.
I guai comuni a quasi tutti i movimenti progressisti dell’Occidente nascono dal fatto che nei Paesi industrializzati la sinistra aveva costruito la sua idea di «sviluppo solidale» su tre pilastri: 1) un’enfasi sulla redistribuzione della ricchezza che trascurava l’imperativo della sua produzione; 2) l’intervento dello Stato in economia alimentato da un ricorso senza limiti al denaro pubblico; 3) una sorta di «terzomondismo», di fratellanza con gli immigrati (anche clandestini) e coi movimenti operai dei Paesi in via di sviluppo basato sulla giusta aspirazione a liberare tutti i popoli dalla povertà. Senza, però, tener conto di cosa questo avrebbe significato per i Paesi ricchi in un mondo nel quale, come Bill Clinton ripete ormai da quasi vent’anni, l’unico sovrano è l’interdipendenza.
Oggi i primi due pilastri sono stati polverizzati: la crescita non è più il dato scontato, «automatico» degli anni della ricostruzione postbellica e del successivo «boom» dell’Occidente industrializzato. Va conquistata con le unghie e coi denti e i Paesi emergenti affamati di sviluppo sono comprensibilmente assai più dinamici di chi il benessere l’ha già raggiunto.In secondo luogo l’iperindebitamento che ha portato molti Paesi europei e gli Usa sull’orlo del «meltdown» fiscale rende quasi inutilizzabile la leva pubblica per sostenere l’economia e alimentare il «welfare».
Quanto al «terzomondismo», proprio la sinistra, sostenendo con simpatia la Cina comunista, l’India dalle radici socialiste, i postcomunisti russi e il Brasile del compagno Lula, ha contribuito ad aggiungere una corsia all’autostrada dell’avanzata dei «Bric», le nuove potenze emergenti (e mercatiste) che hanno travolto l’Occidente.
La difficoltà di comprendere e accettare la nuova realtà non è solo della sinistra: fanno sorridere i ministri di Berlusconi che minacciano, dopo il caso Battisti, di «isolare il Brasile» come se fosse un povero esportatore di caffè e non una nuova potenza i cui jet Embraer, tanto per dirne una, volano con le aviolinee di mezzo mondo, compresa Alitalia. Con la conseguente necessità di rapporti commerciali quotidiani col Paese sudamericano per tenere in efficienza la flotta.
Ma è la sinistra la parte politica maggiormente spiazzata dal cambiamento, la più tentata di resistere perché non riesce a definire una nuova piattaforma politica appetibile come quelle del passato. Non ci riesce perché continua a difendere conquiste inesorabilmente erose dalla realtà: dal livellamento imposto dalla globalizzazione, ma anche da una rivoluzione tecnologica mai completamente metabolizzata dal mondo politico e sindacale.
Anziché analizzare fatti positivi (mezzo mondo uscito dalla schiavitù della fame) e meno positivi(il trasferimento di ricchezza dall’Occidente all’Asia), molti da noi preferiscono non vedere. Così, però, si imbocca la strada di un sottosviluppo, lenito dall’anestetico del consumo delle risorse accumulate dalle generazioni precedenti. L’America reagisce con più coraggio, accettando una correzione di rotta che solo il nostro provincialismo ci fa ridurre a «ricetta Marchionne», anche perché non dispone di un simile anestetico. E’ significativo e sorprendente che da noi a toccare questo problema — affermando con forza che l’imperativo assoluto deve essere quello di tornare a crescere, a produrre ricchezza, prima di discutere del resto — sia stato, nel discorso di Capodanno, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: un personaggio che per la sua storia e la sua età avrebbe potuto essere portato a guardare al suo passato più che a scrutare il futuro.

Fonte: Corriere della Sera del 2 gennaio 2011

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