• mercoledì , 25 Dicembre 2024

La scommessa di Marchionne su Fiat può venir bene per tutte le imprese

VIA DAL CONTRATTO NAZIONALE.
La contrattazione aziendale si effettua in un numero limitato di luoghi di lavoro. Se si consolidasse il modello Lingotto, ci sarebbe spazio per soluzioni più flessibili.
Ce la farà Sergio Marchionne a provocare in salutare disordine nel campo di Agramante di relazioni industriali sostanzialmente immutate dagli anni 60 del secolo scorso? L’Ad italo-canadese deve combattere su due fronti: quello tradizionale con la Fiom che gli ha giurato una lotta senza quartiere (la Cisl e la Uil sono in imbarazzo, ma hanno colto la delicatezza del passaggio); quello visibilmente aperto con la Confindustria che non è in grado di seguire fino in fondo il manager dell’auto nel suo disegno di risolvere i problemi del gruppo anche a costo di disarticolare il modello contrattuale. E si sa, il fuoco amico è solitamente più insidioso. La Confindustria ha già predisposto il pacchetto che dovrebbe salvare capra e cavoli.
Dapprima la presidente Emma Marcegaglia ha cercato di rispondere alle esigenze della Fiat invitando la Federmeccanica a negoziare con i sindacali (disponibili) un ampliamento delle norme di deroga già previste nel contratto nazionale della categoria (non sottoscritto dalla Fiom). Poi, dopo il vertice di New York che è seguito all’interruzione del negoziato su Mirafiori (si è trattato di un segnale di disappunto inviato dalla Fiat a Viale dell’Astronomia), è sceso in campo Alberto Bombassei indicando in un’intervista al Sole 24 Ore una soluzione di alta diplomazia, ma – come vedremo – di esile e precaria sostanza. Secondo il vicepresidente con delega alle relazioni industriali solo le Newco dovrebbero uscire dall’associazione, mentre le altre società dell’ex impero della Famiglia per antonomasia, resterebbero affiliate. In tale contesto, verrebbe il contratto nazionale del settore auto e costituita la Fede-muto (fuori dalla Fedetmeccanica e a pari livello con essa) quale struttura di categoria, appunto, della Confindustria. Così, si ricomporrebbe l’ordine consueto: un nuovo contratto nazionale (che andrebbe aggiungersi ai circa 400 ccnl esistenti) e una federazione di categoria in più, mentre il “lavoro sporco” (ovvero un negoziato estraneo alle regole) se lo farebbero in proprio le Newco. La forma sarebbe salva; la sostanza cambierebbe di molto.
Anche ammesso che gli interlocutori della Fiat (magari quelli più riformisti) entrino in quest’ordine di idee (probabilmente finiranno per farlo perché Marchionne ha sempre a disposizione il pia *** no B, cioè la delocalizzazione delle attività lasciando da noi insediamenti di carattere marginale), quale potrebbe essere la struttura del contratto dell’auto? Qualcuno s’illude che Marchionne voglia complicarsi la vita andando alla ricerca di un ambito di applicazione che abbracci pure l’indotto, sconvolgendo così tutta la contrattazione collettiva dell’industria, poiché le aziende fomitrici applicano contratti di altri settori (chimica, gomma-plastica eccetera). Pur se l’esito di tale processo fosse chiamato pomposamente contratto nazionale si tratterebbe pur sempre di un mega-accordo aziendale, interessato a risolvere i problemi,strettamente specifici,del gruppo.
Dove stanno, allora, a seconda dei punti di vista, l’insidia e la novità del progetto di Marchionne: insidia e novità che trovano posto nelle cose prima ancora che nella volontà del manager, il quale tutto ha in mente fuorché preoccuparsi del futuro delle relazioni industriali in Italia? Se adesso i due livelli, nazionale e aziendale, di contrattazione sono momenti distinti ma coordinati, domani se attecchisse l’esperimento Fiat potrebbe determinarsi una situazione per cui le imprese (segnatamente i grandi gruppi) sarebbero autorizzate a perseguire una politica dei due forni: chi vuole applica il contratto nazionale, chi preferisce altrimenti, ne crea uno a sua immagine e somiglianza (magari truccandolo come contratto nazionale odi settore). È fin troppo evidente che una situazione siffatta determinerebbe la crisi dell’attuale modello e dei suoi protagonisti e interpreti.
La domanda è: una soluzione siffatta sarebbe peggiore o migliore dell’attuale? Diciamoci la verità: nel cambiamento, il sistema avrebbe da perdere solo le proprie catene. Al di là della retorica, oggi, il contratto nazionale ha oneri troppo elevati per una parte del paese (tanto che non lo si applica in molte aree del Mezzogiorno), è inadeguato per un’altra parte (quella che produce e tira la carretta) ed è indifferente alle problematiche della competizione internazionale. La contrattazione aziendale si effettua in un numero limitato di imprese (anche se è diffusa una prassi informale, nelle piccole aziende, favorita dalle misure di detassa’ione delle voci legate alla produttività, volute e finanziate dal governo). Se si consolidasse il modello Fiat vi sarebbe spazio per soluzioni più flessibili soprattutto a favore delle aziende esportatrici, condannate a un difficile confronto, sul piano internazionale, dove non si prendono a riferimento i costi di produzione, ma il prezzo dei prodotti.

Fonte: Il Rifromista del 17 dicembre 2010

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