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La road map della Germania da sola non basta a salvare l’euro

Quando il cancelliere Helmut Kohl difendeva il progetto di integrazione europea, sosteneva che l’unificazione europea era una questione di pace o di guerra.
Con il tempo molti di noi hanno pensato che si trattasse di uno stratagemma retorico, un’eco di tragedie ormai troppo lontane e che in fondo i cittadini europei non avrebbero mai nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di un conflitto tra i loro Paesi.
È certamente così. Tuttavia i costi economici dell’attuale crisi europea corrispondono a quelli di uno dei frequenti conflitti regionali che venivano combattuti tra i Paesi europei nel 19° secolo. Se la moneta unica deflagrasse in modo disordinato, i costi economici diventerebbero paragonabili a quelli della prima guerra mondiale. Ma a peggiorare ulteriormente la situazione c’è il fatto che sugli stati europei pesa dal 2008 il costo della crisi finanziaria globale che è originata negli Stati Uniti e che ha causato un aggravio dei debiti pubblici equivalente in media a quello provocato dalla seconda guerra mondiale.
La gravità della sfida politica che ha preso forma nel corso degli ultimi mesi è penetrata nelle consuetudini e nel modo di pensare dei cittadini. In alcuni Paesi si vede disintegrarsi con una rapidità inimmaginabile il tessuto politico su cui si sono rette le democrazie per decenni. I partiti tradizionali non sono più considerati rappresentativi della maggioranza degli elettori in Grecia né in Italia. Anche in Germania un processo di frammentazione parlamentare sembra accelerare. Ormai da tempo i due maggiori partiti popolari che avevano garantito il consolidarsi della democrazia tedesca nel dopoguerra non raccolgono più il 90% dei voti, ma la metà. Se la crisi dovesse aggravarsi l’Europa rischierebbe di trovarsi nella combinazione di costi economici terribilmente onerosi e di fragilità politica. Sarebbe una miscela simile a quella che provocò la caduta della Repubblica di Weimar.
Per contrastare questo scenario terribile, il Consiglio europeo di fine mese, il 28 giugno, dovrà produrre un ambizioso orizzonte politico favorevole al salvataggio dell’euro e dell’Unione europea. Solo consolidando la cornice europea, le democrazie nazionali potranno ritrovare compattezza. Da Berlino sta emergendo finalmente una “mappa nautica” che dovrebbe accompagnare la barca europea al sicuro.
La mappa prevede tre passaggi impegnativi: un’unione bancaria e finanziaria entro 12-18 mesi; un’unione fiscale entro il 2015 e infine un’unione politica legittimata democraticamente entro il 2020. È forse la prima volta che si vede sullo sfondo un punto d’approdo per la tormentata vicenda europea.
Tuttavia questo percorso immaginario sposta così in là l’orizzonte politico da scontrarsi con le emergenze di brevissimo termine. Se il Consiglio europeo di fine giugno dovesse produrre solo un impegno rimandato nel tempo, rischia di arrivare troppo tardi. Il 17 giugno le elezioni generali in Grecia potrebbero determinare l’impossibilità per Atene di rimanere nella zona euro. Come è stato spiegato in occasione del recente Consiglio Italia-Usa a Venezia, i rappresentanti del partito di estrema sinistra che potrebbe vincere le elezioni di domenica sono essi stessi preoccupati dalla prospettiva di una vittoria. Sino a pochi mesi fa i sondaggi davano loro il 4% dei consensi e l’intera linea del partito era costruita su una posizione di marginalità politica e di intransigente opposizione al governo. Ora che sono oltre il 20%, nel caso di vittoria, potrebbero dover decidere nel giro di giorni su temi esistenziali che non hanno mai considerato come se fossero di loro responsabilità. Non avere a disposizione un interlocutore comprensivo rischia di peggiorare la situazione e rendere inevitabile l’uscita dalla zona euro.
Secondo un noto investitore internazionale non è nemmeno troppo importante chi sarà il vincitore del voto di Atene perché, a forza di discuterne, l’ipotesi di un’uscita della Grecia dall’euro è ormai diventata plausibile e a catena essa apre la possibilità che altri Paesi facciano la stessa sorte. A questo punto l’euro finirebbe per incorporare un rischio di cambio perfino tra Germania e Francia. Ancorare le aspettative al 2020 in tali circostanze sarebbe una sfida al buon senso.
Come avviene ormai da quattro anni, lo scenario che si sta profilando resta quello di governi che continuano a procrastinare il loro impegno diretto e solidale a favore dei Paesi in maggiore difficoltà e lasciano alla Banca centrale europea il compito di tamponare le falle per quanto possibile ogni volta che l’euro si avvicina al baratro. L’esistenza di una mappa nautica che disegna il tragitto dei prossimi anni può legittimare l’intervento della Banca centrale rendendolo “temporaneo”, ma difficilmente è in grado di evitare che mese dopo mese sempre nuovi incidenti continuino a lacerare la tenuta economica, sociale e politica dell’area euro.

Fonte: Sole 24 Ore 11 giugno 2012

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