Si potrà arrivarea una visione ragionata che metta fine alla catastrofe dell’Ilva di Taranto? Gravi incidenti mortali lungo le linee di produzione, inquinamenti mortali soggetti a valutazioni discordi, decisioni della magistratura che si sovrappongono a decreti del governo e del Parlamento, e via elencando. La drammatica inchiestaa più puntate pubblicata da Adriano Sofri sul nostro giornale non riesce a pervenire a una risposta definitiva: si deve privilegiare la salute a scapito del lavoro o viceversa? E a quale gradualità reciproca? Si può accettare o no che la magistratura si sovrapponga al Parlamento nella direzione della politica economica? Difficile azzardare una indispensabile risposta. Cercherò di dare un quadro sommario così che il lettore possa giudicare col massimo di oggettività. Lo stabilimento Ilva di Taranto è oggi il più grande impianto siderurgico d’Europa e uno fra i più grandi nel mondo, con oltre 12.000 dipendenti diretti. L’Azienda, ex Italsider, è stata privatizzata nel 1995 ed è stata acquisita dalla famiglia Riva. Dopo l’acquisizione, i nuovi azionisti hanno apportato modifiche radicali.
Tra l’altro 1,2 miliardi sono stati investiti in opere di ambientalizzazione. Il 26 luglio dello scorso anno parte dell’impianto è stato posto sotto sequestro dalla magistratura e sono stati arrestati i vertici aziendali, tuttora agli arresti domiciliari. La tesi addotta dai pm è quella che nello stabilimento ci sarebbe pericolo di “disastro ambientale” anche se i periti nominati dal gip hanno evidenziato nelle loro perizie che Ilva rispetta in termini di emissionii limiti consentiti dalla legge per tutte le sostanze monitorate.
Secondo i parametri attuali adottati da tutti i Paesi – e anche dall’Italia – per salvaguardare la tutela della salute pubblica, la soglia delle pm10 (polveri sottili) nell’aria non deve superare i 50 microgrammi per metro cubo giornaliero (40 la soglia media annuale). Ebbene, le emissioni di pm10 a Taranto si attestano a 34,9 microgrammi per metro cubo e sono addirittura inferiori a quelle di via Senato a Milano che si attestano sui 42 microgrammi per metro cubo.
Dal 26 novembre scorso, nonostante sia stato approvato un decreto legge, tramutato poi in legge, che consentirebbe all’Ilva la ripresa delle attività di produzione e commercializzazione, la magistratura locale ne rifiuta l’applicazione e continua a considerare l’acciaio finora prodotto “corpo del reato”, come le armi in una rapina, e così restano sotto sequestro 1 milione e 700 mila tonnellate di prodotti lavorati e semilavorati del valore di oltre 1 miliardo di euro che l’azienda non può toccare. Il valore di questa merce corrisponde a un quinto del fatturato annuo di Ilva.
Infine a febbraio il gip ha autorizzatoi custodi cautelaria vendere il prodotto sotto sequestro vincolando l’eventuale ricavato in un conto bloccato a disposizione dei magistrati in attesa di futura sentenza, non utilizzabile neppure per il disinquinamento attuato dall’Aia. L’Ilva ha impugnato questo provvedimento e il tribunale del Riesame ha accolto il ricorso. Il prodotto rimane sotto sequestro in attesa del prossimo pronunciamento della Corte Costituzionale.
Infine il tribunale di Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale sulle leggi di cui sopra, ma la Consulta ha dichiarato inammissibili i due ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, rinviando al 9 aprile l’udienza sulla legittimità costituzionale. In questo contesto, l’Ilva ha iniziato ad attuare le prescrizioni previste dall’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) a cominciare dal blocco dell’altoforno 1 per i lavori di rifacimento, ha abbassato i cumuli di materie prime nei parchi minerari, passati da 2 milioni di tonnellate del gennaio 2012 a poco più di 50 mila del gennaio scorso. È stato raggiunto anche un accordo quadro coi sindacati per l’applicazione dell’Aia.
Non è detto che basti per mettere a riparo la salute, maè l’unica strada per avviarsi a coniugare lavoro, sanità e solidarietà.
La rivolta dell’Ilva e i giudici manager
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