di Giuseppe Pennisi.
Vi ricordate di Latin Lovers (“Amanti Latini”) film di culto di Mervyn Le Roy del lontano 1953, imperniato su Lana Turner nel suolo di insoddisfatta americana alla ricerca di un vero amore in Brasile? Ebbe tanto successo che ne sono state fatte una parodia nel 1966 e un remake di sorta nel 2015. Il technicolor smagliante della prima versione (in cui Ricardo Moltaban cantava un pezzo diventato anch’esso di culto) mi è tornato alla mente il 16 gennaio nella sala delle conferenze internazionali della Farnesina dove l’Istituto Affari Internazionali ha organizzato una giornata di studio sul tema delle relazioni tra Unione europea e l’America Latina e i Caraibi (normalmente siglati Lac). Nutrita la rappresentanza di ambasciatori e diplomatici sia degli Stati Lac che dell’Ue.
È tema importante anche se da anni l’attenzione dell’Ue si è spostata, in una prima fase, verso l’area “emergente” dell’Estremo Oriente (che prometteva esportazioni e investimenti) e, successivamente, verso quella del Medio Oriente e del Nord Africa (in fiamme e da dove provengono migranti e reti terroristiche). L’area Lac è parsa dimenticata, anche nei negoziati per la Trans- Atlantic Partnership.
Non è stato sempre così: da oltre mezzo secolo ha sede a Roma l’Iila, Istituto Italo-Latino Americano, piccola ma dinamica organizzazione internazionale creata proprio per rafforzare la relazioni tra l’Italia (e il resto dell’Ue) e l’America Latina. Un tempo l’area aveva un’importanza importante nella cooperazione allo sviluppo dell’Italia e anche dell’Ue. Sino a pochi anni fa, si pensava che l’America Latina sarebbe stata uno dei motori dell’economia internazionale. In un film olandese del 2009 (The World Next Supermodel di Ijsbrand van Veelen) si ipotizzava, addirittura, che il Brasile avrebbe rimpiazzato gli Stati Uniti come “supermodello” dell’economia mondiale.
Oggi il quadro è molto differente. Uno studio di José Labrengo Cabrera dell’European Institute for Security Studies (Euiss) definisce l’area Lac come quella delle “insecure economies” (“economie insicure”). Il crollo del prezzo del petrolio ha dato un duro colpo al Venezuela e al Messico. Le vicende dell’Estremo Oriente hanno causato un colpo d’arresto degli investimenti in Brasile e in Argentina. La corruzione e l’instabilità politica piagano il continente. È tornata, alla grande, la stagflazione: in Argentina il Pil cresce a un tasso dell’1% l’anno, ma i tassi d’interesse sfiorano il 40% l’anno.
Ci sono zone dove il quadro non è così plumbeo. Il Cile, il Perù e gli Stati dei Caraibi, importatori netti di petrolio, sono stati in parte in grado di “assorbire gli shock dell’economia globale”. In Colombia, poi, le prospettive sembrano in via di miglioramento a ragione delle recenti maggiori probabilità di un accordo con le “forze armate rivoluzionarie”. A mio avviso, e sulla base dei miei vecchi ricordi dell’area Lac dove lavorai quando ero in Banca Mondiale, la conferenza internazionale è stata un’utile occasione anche per evitare che l’America Latina finisca nel dimenticatoio.
uttavia, non è più tempo di “amanti latini”, gli spazi sono molto ristretti sia perché le possibilità finanziarie dei singoli Stati dell’Ue e della stessa Unione sono limitati, sia perché le priorità sono altrove, sia soprattutto perché molti Paesi dell’area non hanno risolto (con un adeguato aggiustamento strutturale) quello che, in un bel libro, David Knox, a lungo Vice Presidente della Banca mondiale per l’area, ha individuato come nodo di fondo: Paesi altamente industrializzati, ma con un’industria così poco produttiva e competitiva di non essere in grado di esportare manufatti.
In questo campo si possono trovare spazi per cooperazione e aiuti effettivi a paesi che intendono davvero mettere le proprie economie, e società, su un nuovo binario.
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