• venerdì , 22 Novembre 2024

La “ripartenza “dell’export lascia indietro i distretti. Ma in India e Cina si vende

Professioni & produttori. Trasformazioni Tornano a crescere città-paradigma come Biella
Il made in Italy accelera, beni di consumo al palo I Piccoli soffrono la debolezza nel marketing
L’ export è ripartito ma i distretti non sono in prima fila a guidare la rivincita del made in Italy, come invece era loro vanto e tradizione. Nel migliore dei casi inseguono, nel peggiore stanno ancora a leccarsi le ferite. I dati sono riferiti al primo trimestre del 2010: la media del manifatturiero italiano ha fatto segnare, rispetto a 12 mesi prima, un balzo in avanti del 7,2%, mentre i distretti industriali italiani sono ancora al palo (-0,6%). Hanno smesso di arretrare pesantemente ma niente di più. Ovviamente si tratta di un dato medio e come tale miscela i risultati estremamente positivi della gomma del Sebino Bergamasco (+48,6%), dell’ oreficeria di Arezzo (+42,3%), delle calzature di Lucca (+39,3%) e dell’ alimentare di Parma (+65% i formaggi e +18% il prosciutto per una media ponderata del 32%) assieme alle performance fortemente negative della maglieria di Carpi (-29,8%), degli elettrodomestici di Fabriano (-21,3%), del tessile-abbigliamento di Treviso (-24,9%) e delle macchine agricole di Reggio Emilia/Modena (-20,8). I dati sono contenuti nel Monitor dei Distretti (giugno 2010) elaborato dall’ ufficio studi di Intesa Sanpaolo e alla fine ci dicono che su 100 distretti messi sotto osservazione ben 52 mostrano un miglioramento rispetto al 2009. Un aiuto è venuto dal calo dell’ euro nei confronti del dollaro e delle monete collegate, ma a giudizio degli analisti, il riequilibrio tra le due divise crea tutt’ al più «una finestra di opportunità, non è certo un driver della crescita italiana». La contraddizione Come si spiega la contraddizione per cui le esportazioni italiane vanno come lepri e la «pancia» dei distretti non segue? Lo racconta Fabrizio Guelpa (ufficio studi Intesa Sanpaolo): «La domanda internazionale in questo momento sta privilegiando gli scambi di beni intermedi sui mercati mondiali. E i nostri settori che vanno meglio sono chimica, gomma-plastica e componentistica elettronica. Quelli pienamente inseriti nelle filiere lunghe, internazionalizzate». Le piccole imprese dei distretti, invece, spesso sono troppo schiacciate a monte nelle fasi della produzione, faticano a creare un proprio brand e manifestano anche un deficit di competenze non strettamente tecniche. Con una battuta si può dire che sono poco terziarizzate e dovrebbero «adottare» professionisti del marketing e della distribuzione. Si può aggiungere anche una considerazione di carattere psicologico: dopo la botta del 2009 non tutti i distretti sono riusciti a riprendersi, a macinare idee e iniziative, a ridare speranza e voglia di battersi alle comunità locali. Sono rimasti scossi, come dei pugili che incassato il colpo restano piantati sulle gambe. I discorsi che si sentono fare nel Friuli a Manzano (-5,4%) dove si produce una buona quantità delle sedie di tutto il mondo e dove oggi si comincia a temere persino la concorrenza di Bosnia e Serbia, a Lumezzane (-3,7%) nel bresciano da dove arrivano rubinetti e pentole o tra i calzaturieri di Fermo (-11,2%) nelle Marche, vertono tutti sulle discontinuità che si vorrebbero introdurre e non si riescono ancora a formulare. E intanto fatica ad affermarsi una logica di aggregazione, magari con la formula soft delle reti di impresa che pure sono una buona cosa. Quello che sembra mancare in molte zone è una vera cabina di regia che si preoccupi soprattutto della fase a valle, quella della vendita. Né i consorzi né le associazioni distrettuali riescono ancora a svolgere questo compito mostrando così una sfasatura tra i bisogni di governance e la realtà. Il confronto Se guardiamo ad alcuni altri distretti simbolo del made in Italy nel mondo comunque i dati non sono straordinari, ma incoraggianti sì. Sassuolo, il distretto delle piastrelle celebrato dal guru americano Michael Porter, dopo un biennio difficile è tornato a crescere a doppia cifra specialmente negli Stati Uniti ma anche in Paesi come Arabia Saudita, Corea del Sud e Israele. Altre città paradigma del made in Italy si vanno riprendendo quote di export e parliamo di Biella (+5%), delle calze di Castelgoffredo celebrate persino in un romanzo di Aldo Busi (+10%) e addirittura il tessile di Prato, alle prese con il distretto parallelo impiantato in riva al Bisenzio dai cinesi, nel primo trimestre 2010 ha portato a casa un +7,9%. Gli ottimisti ad oltranza possono trovare conferme al loro mood nei dati riferiti ai divani imbottiti della Murgia (+11,5%), con l’ avvertenza però che il distretto pugliese aveva lasciato sul campo in due anni il 40% delle proprie esportazioni. Un discorso a parte riguarda l’ alimentare che resta il settore con le potenzialità maggiormente inespresse. Il tallone d’ Achille è rappresentato dal rapporto con la grande distribuzione straniera, con le maxi-catene alla Sainsbury che richiedono una cultura della fornitura e della logistica che i Piccoli oggi ancora non hanno. In questo settore faticano più che altrove ad avanzare le esperienze delle reti di impresa, perché sul territorio operano aziende in diretta concorrenza e quindi restie a sedersi allo stesso tavolo. Per avere un dato che possa fungere da sintesi basta ricordare che in Cina nel 2009 il nostro export agro-alimentare ammontava alla (ridicola) cifra di 90 milioni di euro. Ma viste le carenze che non hanno permesso ancora ai distretti di guidare la riscossa del made in Italy, guardiamo al bicchiere mezzo pieno e studiamo su quali mercati sono riusciti comunque a risalire. Cominciamo dall’ immancabile Cina (+21,9% nel primo trimestre 2010) capace di trascinare al successo pieno le aree specializzate nella concia delle pelli come la veneta Arzignano, la campana Solofra e la toscana Santa Croce sull’ Arno. Cosa è avvenuto? In sostanza compriamo da Pechino il pellame, lo lavoriamo nei nostri distretti con macchinari e metodologie d’ eccellenza e lo rivendiamo ai cinesi che lo usano per fabbricare divani low cost. La somma algebrica di queste operazioni e di questo andirivieni Est-Ovest di merci è vantaggiosa per i nostri distretti della concia che hanno chiuso i primi tre mesi dell’ anno in corso con incrementi dell’ export tra il 26 e il 16%. Stanno vendendo bene in Cina anche le macchine per l’ imballaggio bolognesi, le macchine tessili e per le materie plastiche di Bergamo, il mobile brianzolo e quello di Livenza. «Pensiamo che il manifatturiero italiano abbia comunque ancora notevoli margini di miglioramento sul mercato cinese – dice Guelpa -. In gran parte dei settori resta ampio il divario tra la nostra presenza commerciale e quella delle imprese tedesche. Solo nel sistema moda e nell’ alimentare l’ Italia riesce a far meglio della Germania». Persino nella meccanica, nelle cucine e nelle sedie i tedeschi si sono dimostrati più veloci di noi. Ma ad Intesa Sanpaolo sono ottimisti perché se è vero che in termini assoluti la piccola Svizzera continua ad essere un mercato di sbocco per le nostre imprese più importante della Cina, è vero che gli spazi di crescita nel secondo caso sono incommensurabilmente più ampi e che il dato statistico sul mercato elvetico andrebbe depurato dalla presenza di piattaforme logistiche di grandi gruppi italiani del lusso domiciliate oltrefrontiera. Comunque ad oggi la Cina rappresenta il settimo mercato di sbocco dei nostri distretti. Le avanguardie Buone notizie arrivano anche dall’ India dove i distretti hanno fatto registrare uno strepitoso +50% anche se si tratta di numeri in valore assoluto troppo bassi. Il Paese di Gandhi pesa ancora solo lo 0,7% nelle esportazioni italiane. A trainare l’ exploit delle vendite all’ estero sono stati i distretti della meccanica strumentale come Varese, le macchine tessili e per le materie plastiche di Bergamo, le macchine per la filiera della pelle di Vigevano. Le stesse riflessioni sono valide per il Brasile, dove in un anno abbiamo guadagnato il 30% di fatturato e anche in questo caso il dato va sottolineato come segnale incoraggiante per il futuro, un test di buona penetrazione commerciale. Le avanguardie della presenza italiana in Brasile sono i distretti della metalmeccanica come Lecco, Bergamo e Vicenza. Anche in Turchia neri primi tre mesi dell’ anno ci siamo fatti valere, con +28%, e il Paese di Ankara comincia a pesare di più (1,7% dell’ export italiano). Il caso di maggior successo è quello dell’ oreficeria di Arezzo. Tra i Bric, infine, manca all’ appello la Russia, dove la domanda interna è crollata e il ritocco al rialzo dei dazi ha colpito mobili, moda e scarpe italiane. «Siamo convinti comunque che i distretti ce la possano fare a riprendersi lo scettro dell’ export – chiude Guelpa – e non penso proprio che le banche faranno mancare il loro sostegno nei Paesi emergenti».

Fonte: Corriere Sera del 22 giugno 2010

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