• lunedì , 23 Dicembre 2024

La riforma (sofferta) alla prova dei fatti

Il quesito che gli esperti si pongono pochi giorni dopo l’entrata in vigore delle nuove norme è sostanzialmente uno: come risponderà il mercato del lavoro alla riforma Fornero? Nell’attesa di avere, dopo l’estate, i primi numeri reali, l’indagine periodica condotta da Unioncamere e dal ministero del Lavoro ci fornisce qualche utile previsione.
E ci dice che ovviamente miracoli non se ne fanno. La tendenza alla diminuzione della quota di assunzioni a tempo indeterminato sul breve si rafforzerà (solo 2 contratti su 10 saranno sine die), nonostante che uno dei presupposti dell’azione del ministro fosse proprio quello di combattere il «lavoro molecolare».
Nel valutare il dato deve essere chiaro che stiamo parlando di una congiuntura largamente dominata dall’incertezza, in cui gli imprenditori che investono sull’allargamento degli impianti o delle strutture immateriali sono purtroppo una sparuta minoranza.
Nei giorni scorsi a Magenta presso la Guala, una delle multinazionali tascabili con bandiera italiana, grazie all’ampliamento dello stabilimento è stato tagliato il fatidico nastro e la cerimonia avrebbe meritato di andare su YouTube (una volta ci pensava la Settimana Incom) perché di casi analoghi di questi tempi ce ne sono proprio pochi.
Si segnala, ad esempio, l’attivismo dei francesi della Decathlon, il colosso della distribuzione di articoli sportivi e comunque le poche nuove iniziative hanno come teatro la provincia e non le grandi città, dove invece si addensa la domanda di lavoro.
Molte speranze vengono riposte nel movimento delle start up tecnologiche. Le segnalazioni sono ricorrenti e lo spirito d’iniziativa piuttosto elevato ma si tratta ovviamente di aziende ad alta intensità di innovazione e bassa di occupazione. Ma veniamo alla legge Fornero.
Gli obiettivi che il governo si era preposto erano sicuramente ambiziosi e in sostanza puntavano a dare più carte in mano agli outsider cercando di stabilizzare gli ingressi, di costruire dei nuovi ammortizzatori sociali e di scambiare tutto ciò con una più accentuata flessibilità in uscita.
Se tutte queste cose fossero state messe in opera negli anni 90 quando Paolo Onofri (un prodiano, non certo un thatcheriano!) le suggerì al centrosinistra, l’operazione si sarebbe giovata di un contesto di crescita economica rendendo più facili le compensazioni.
Elsa Fornero ha cercato di compiere lo stesso tragitto dentro la più nera delle recessioni che le potesse capitare e ha dovuto constatare che per costruire delle decenti infrastrutture della flexsecurity, almeno in una prima fase, lo Stato deve poter spendere.
Non essendoci le condizioni la riforma che è stata approvata, già ai primi passi, deve scontare i rischi dell’incompiutezza, della sommatoria di contraddizioni e soprattutto dello scetticismo di coloro (gli imprenditori) che quelle norme dovranno attuare e di cui, in teoria, dovrebbero giovarsi.
A testimonianza del «vorrei ma non posso», che appare il refrain di questa riforma, è accaduto qualcosa che se non è inedito sicuramente è particolare. Subito dopo la pubblicazione del testo Fornero in Gazzetta ufficiale le commissioni parlamentari già stavano lavorando su un restyling che verrà approvato usando come taxi un altro decreto, quello sullo sviluppo voluto da Corrado Passera. Così, dunque, stanno le cose e vale la pena ricordarlo non per essere disfattisti.
Il testo di legge già prevede delle procedure di monitoraggio degli effetti della legge, ho l’impressione però che siano troppo diluite nel tempo. L’esame del rapporto tra nuove norme e comportamenti sul campo va fatto già in autunno in modo che un imprenditore, di fronte al dubbio se assumere o no e quale contratto usare, alla fine non faccia prevalere l’inerzia e rinunci a creare un potenziale posto di lavoro.

Fonte: Corriere della Sera del 23 luglio 2012

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