• giovedì , 21 Novembre 2024

La ricetta greca per l’Italia

Nel fragore quotidiano della crisi greca riecheggia l’avvertimento all’Italia a non fare la fine della Grecia, dato che anche il nostro paese ha un pesante fardello di debito pubblico (119% PIL nel 2010), il secondo più alto in Europa dopo quello greco (143%). Si dimentica però di dire che l’accostamento tra i due paesi non si ferma al debito, ma investe una serie di fattori che hanno portato la nostra economia alla stagnazione da più di un decennio, senza nemmeno il conforto di aver compiuto risoluti passi verso il risanamento della finanza pubblica.
Dove stanno le analogie? Basta guardare il Programma a cui l’UE e il FMI hanno subordinato il salvataggio della Grecia, perché enumera tutte le debolezze da correggere. Ovviamente l’intensità dei mali può differire tra i due paesi, ma la tipologia colpisce per la somiglianza.
A parte il disavanzo pubblico, che l’Italia è riuscita a contenere entro il 4% PIL, mentre in Grecia si aggira attorno al 10%, sono i fattori strutturali a monte della crisi che ci accomunano. La Grecia ha perduto dall’ingresso nell’euro il 25% di competitività, per effetto di una dinamica di prezzi e salari più veloce dei suoi concorrenti e che non ha trovato adeguata compensazione in incrementi di produttività. Si stima che ai valori attuali dell’euro, il suo cambio effettivo sia sopravvalutato tra il 20% e il 34%.
Sul piano strutturale la situazione è altrettanto grave: un mercato del lavoro poco flessibile e con il solito dualismo della protezione tra chi ha un lavoro e chi non l’ha, un settore di imprese pubbliche troppo dilatato e poco efficiente, appalti e commesse poco trasparenti e costosi, eccessi di burocrazia che gravano sulle imprese, carenza di concorrenza in molte attività economiche, dal turismo, al commercio, all’energia, protezioni alle imprese pubbliche, nei trasporti, nei servizi locali, nelle libere professioni, compresi avvocati, notai, farmacisti, architetti, ingegneri, scarsa attrattiva per gli investitori, un sistema sanitario pubblico costoso ed inefficiente. Vanno aggiunti una pubblica amministrazione da ammodernare, una finanza locale troppo onerosa, una spesa pensionistica in ascesa, la piaga dell’evasione fiscale ed un sistema d’istruzione inadeguato.
Per un italiano questo elenco suona molto familiare, perché da decenni si cerca di correggere queste deficienze con alterna fortuna, se si pensa che si continua a invocare riforme sempre negli stessi campi, segno che non si è mai fatto abbastanza.
Per riportare la Grecia a una sana crescita economica le istituzioni internazionali hanno posto condizioni su ciascuno di questi punti, e le autorità hanno dovuto prendere impegni precisi e verificabili. L’alternativa è evidentemente la bancarotta e l’incapacità a finanziare la spesa in disavanzo (non solo gli interessi sul debito).
All’Italia, le stesse istituzioni non hanno chiesto nulla perché non ha bisogno del loro aiuto, ma le raccomandazioni emesse nei periodici esami vanno nella stessa direzione: riforme, riforme e ancora riforme strutturali per la crescita e la competitività. A supplire alla loro condizionalità intervengono invece i mercati finanziari a cui l’Italia deve attingere per coprire disavanzi e debito, e che nutrono dubbi sulle prospettive italiane. Di questo bisogno di riforme forti cerca di tenere conto il programma di Tremonti, ma solo in parte e con pericolose dilazioni. Che sia proprio vero che ci vorrebbe una crisi ancor peggiore perché in Italia si facciano le riforme?

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