• domenica , 8 Settembre 2024

La politica monetaria nell’epoca dell’Euro

Potrebbe sembrare una cosa marginale; pochi vi avranno fissato un pensiero. Ma la scomparsa della sua intestazione dalle banconote che tutti gli italiani hanno in tasca è una svolta per la Banca d’Italia, e non solo formale.
Nessuna delle banche centrali dei Paesi che hanno adottato l’euro emette più proprie banconote; tutte conseguentemente si sono “disperse” nella Banca centrale europea o, meglio, nel Sistema delle banche centrali europee. Ora è la Bce la titolare del diritto di stampare (o far stampare) la moneta, di stabilirne le caratteristiche fisiche, di fissarne le quantità che devono essere poste a disposizione del pubblico per le sue esigenze di scambio, di apporvi la propria intestazione. A motivo della pluralità degli idiomi nazionali parlati nell’area dell’euro, ed essendo impossibile rispettare la loro pari dignità stampando in almeno nove delle lingue corrispondenti ogni elemento che solitamente figura nei biglietti di banca (intestazioni, valore in lettere, diffida contro le contraffazioni, qualifica di chi vi appone la firma), le banconote risultano scarne quant’altre mai, ermetiche, anonime, tanto che potranno stentare a sostituire i contenuti emblematici, identitari, unificanti che erano propri delle ormai superate banconote nazionali.

Questi motivi valgono per tutte le banconote che l’euro ha sostituito, dalle più altezzose come il marco tedesco, a quelle dei Paesi minori. Ma nel caso italiano ce n’è qualcuno in più. La Banca d’Italia non è una Banca centrale qualsiasi; non lo è mai stata. Il suo ruolo non è mai stato limitato a quello strettamente tecnico-istituzionale, ma è sempre stato accresciuto da quella via italiana al central-banking che risale al tempo tra le due guerre quando, sotto la guida di Beneduce, l’Istituto acquisì una sensibilità per i problemi economici e sociali del tutto estranea alla cultura del central-banking del tempo. L’assunto era che in un Paese eterogeneo e complesso come il giovane Regno d’Italia il perseguimento delle finalità monetarie proprie di un Istituto di emissione sarebbe stato più efficiente se gli strumenti propri della politica monetaria fossero stati usati considerando non solo gli aspetti tecnico-monetari dei problemi da affrontare, ma anche la reazione socio-economica che la manovra di quegli strumenti avrebbe determinato. Nacque così, tra l’attività della Banca centrale e l’attività del Governo, quell’interazione stretta talvolta ritenuta impropria, talaltra ritenuta opportuna o addirittura necessaria. Quanti la ritenevano impropria consideravano che la Banca d’Italia interferiva, spesso impedendola, con la politica economica che il Governo riteneva di poter definire e realizzare sulla base di un mandato popolare che, invece, la Banca d’Italia non ha. Per contro, quanti la ritenevano opportuna e persino necessaria considerava le anomalie del sistema politico-istituzionale italiano, il quale era tale da definire una maggioranza cui affidare la responsabilità di governo, ma non una opposizione la cui funzione di critica e controllo trovasse responsabilizzazione e credibilità nella evenienza di una alternanza.
La Banca d’Italia dunque assunse un ruolo non solo di contrapposizione dialettica al potere politico, ma anche di condizionamento operativo, manovrando le leve del suo ponte di comando – la liquidità, i tassi di interesse, la disponibilità di credito e la sua destinazione, il cambio – in funzione di obiettivi di politica economica e finanziaria anche diversi da quelli seguiti dall’azione del Governo e del Parlamento. Ricordo a questo proposito la Tesi di un Governatore del passato il quale considerava il suo ruolo simile a quello di un magistrato il cui compito è quello di applicare un ordinamento anche in conflitto con una qualche contingente espressione della volontà popolare. Rimane consegnato alla storia l’aumento del tasso di sconto al 15% annunciato nel settembre del 1992, nell’acme della crisi valutaria e quando la difesa tecnica del cambio aveva pressoché azzerato le riserve, al fine di premere sul consiglio dei ministri, la cui riunione era in corso, affinché superasse le residue resistenze a varare la manovra di finanza pubblica necessaria a ristabilire la fiducia dei mercati nella lira (per la cronaca, il braccio di ferro si risolse a favore del Governo che non approvò la manovra necessaria per cui la situazione precipitò e la lira fu abbandonata alla più drammatica delle sue svalutazioni).
Il potere di intervenire operativamente rendeva rilevante ed oggettivo il peso delle sue valutazioni sulla situazione economico-finanziaria, sui problemi aperti, sulle soluzioni da adottare per porvi rimedio. La sua capacità di analisi non aveva uguali, ma a rendere incontrovertibili le conclusioni alle quali perveniva era il fatto che comunque erano la premessa delle iniziative operative che potevano discenderne.

Erano dunque molteplici le componenti dell’autorità che alla Banca d’Italia era riconosciuta e che ne facevano una Banca centrale affatto particolare, anzi unica, nella pur variegata casistica che in merito si riscontrava e si riscontra tuttora tra le grande democrazie di cultura occidentale. Ed è singolare osservare come lo spessore e la natura dell’autorità della Banca d’Italia ne abbia fatto una istituzione particolarmente difesa dalla sinistra comunista, la quale considerava la forza e l’autorevolezza della banca centrale una necessità che discendeva dalle anomalie dell’assetto politico-istituzionale, dalle inefficienze dello Stato e delle sue strutture amministrative, dalla debolezza del capitalismo.

Questo cerchio lungo il quale la Banca d’Italia ha accresciuto nel tempo il suo prestigio e la sua autorità ora si è sensibilmente ristretto e, soprattutto, si è interrotto. Che si sia ristretto è evidente dal momento che ha persola titolarità della politica monetaria e degli strumenti che la governano. La Banca d’Italia ora concorre a definire quella politica insieme al direttorio della Bce ed alle altre dodici banche centrali dei Paesi che hanno adottato l’euro, e provvede a realizzarla su scala nazionale. Non ha più il controllo degli strumenti attraverso i quali aveva la possibilità di incidere sulla politica economica condizionando i margini di manovra a disposizione degli organi politici e così “imponendo” le proprie analisi, i propri suggerimenti, le indicazioni sui temi più diversi, dalla politica fiscale a quella previdenziale, dalla politica industriale alla dinamica salariale. La sua capacità di analisi è invariata; rimane tra gli osservatori più attrezzati e capaci sulla situazione economica e finanziaria sia internazionale che nazionale. Ma le sue analisi non sono più correlate alla situazione monetaria e tanto meno preludono agli indirizzi futuri della politica monetaria. Possono essere apprezzate per la loro specificità e per il contenuto di speculazione intellettuale, ma niente di più; hanno perso il motivo per il quale potevano imporsi attraverso le azioni di politica monetaria ad esse conseguenti e per il quale, quindi, era azzardato contestarle.

Il prodotto della contestabilità delle analisi della Banca d’Italia è la loro strumentalizzazione politica. Poiché non sono più correlate alla politica monetaria (anzi, rifuggono da ogni tema monetario per non interferire con la Banca centrale europea), non hanno più una copertura che le protegga dall’accusa di partigianeria ogniqualvolta toccano interessi di parte. E così l’attenzione mediatica per le analisi e le valutazioni della Banca d’Italia rimane ancora alta, ma per motivi che si vanno significativamente modificando: se un tempo la loro rilevanza era data soprattutto dal contenuto anticipatore delle iniziative di politica monetaria, oggi è data sempre più esplicitamente dalla sintonia (o dalla distonia) con le analisi, le posizioni e l’operato dei governi e delle coalizioni parlamentari. C’è ancora una inerzia che porta ad attribuire agli studi della Banca d’Italia un peso maggiore di quelli prodotti da altre organizzazioni, ma non c’è motivo per escludere che col tempo i pesi tendano ad eguagliarsi, anche perché la qualità non basta a sottrarre quegli studi ad una strumentalizzazione politica che, come per tutti gli altri, si concentra sulle conclusioni senza considerare i dati documentali, le elaborazioni statistiche ed i processi logici che le hanno determinate.

Oltre che a restringersi, poi, il cerchio della rilevanza mediatica che ha alimentato l’autorità ed il prestigio della Banca d’Italia si è anche interrotto. Il denaro circolante non reca più la sua intestazione. Alla gente comune non giunge più l’alta funzione di governare la moneta che la Banca d’Italia svolgeva, e neppure il nome della istituzione. Per altro, il compito principale della Banca si restringe alla vigilanza sulle imprese bancarie: un compito cruciale comportando sia una funzione di controllo sulla stabilità patrimoniale degli intermediari bancari, sia un ruolo di salvaguardia della concorrenza, ma certamente non tale da suscitare un qualche interesse della gente comune o degli organi di informazione generalista. Il che comporta che, con lo smorzamento di quell’inerzia, la rilevanza mediatica della Banca d’Italia rimarrà quella di altre istituzioni tecniche o, comunque, “discrete” quali una Corte Costituzionale o un Cnel.

Fonte: Rivista della Banca Popolare di Sondrio - Maggio 2002

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