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La politica monetaria e l’aumento dei prezzi

Un mese fa i prezzi dei beni di largo consumo mondiale (le commodity, ossia materie prime e alimentari) viaggiavano ancora a velocità pari al doppio di quelli del periodo di crisi; ora procedono a valori dimezzati, con un profilo quasi piatto nella loro dinamica mensile, ove si escluda il petrolio tutt’ora investito dal vento delle rivendicazioni popolari nordafricane e mediorientali.
Quando ciò accade, tutti i Paesi restano egualmente colpiti dagli aumenti dei prezzi e possono trasferire l’onere sui prezzi al consumo senza modificare il grado di reciproca concorrenza: l’aumento agisce infatti come una tassa traslabile sul consumatore finale. Come già accaduto negli anni ’70, la tassa dello sceicco, quella imposta dai vertiginosi aumenti del prezzo del petrolio, si trasferì sui prezzi al consumo, per trasmettersi poi ai tassi dell’interesse e ai disavanzi pubblici costringendo le famiglie a stringere la cinta e le imprese a ristrutturarsi. Occorse più di un lustro per assorbire gli effetti di questa tassa, ma il tutto sospinse quello che l’Italia ribattezzò come nuovo rinascimento.
L’odierna tassa dei produttori di commodity cade in un habitat appesantito dagli effetti della crisi finanziaria americana e dalla competizione dei Paesi emergenti, i quali sono capaci di assorbire gli aumenti dei prezzi internazionali avendo margini di profitto più elevati. Tuttavia essi registrano forti aumenti dei prezzi interni. Tra i tanto declamati Brics, il Brasile registra +6%, la Russia 9,4%, l’India 8,8%, la Cina 4,9% e il Sud Africa 3,7%. L’Euroarea marca il 2,6% di aumento. Per contenere la trasmissione ai prezzi finali del carico dei maggiori costi delle commodity, la Bce ha deciso di aumentare dall’1 all’1,25% il tasso ufficiale di interesse. Ottenendo così una rivalutazione dell’euro e scoraggiando le importazioni, senza frenare l’impatto sui prezzi. Infatti ha fatto sapere che le sue previsioni sono per una inflazione che persisterà sopra il 2% nell’intero 2011, ad un livello che essa considera non accettabile; fa così intendere che ci saranno altri aumenti dei tassi ufficiali. Essi sarebbero già necessari, ma non li ha potuti decidere perché l’aumento del costo del danaro aggraverebbe le difficoltà in cui versa la finanza pubblica europea e attirerebbe più dollari, causando un’ulteriore rivalutazione dell’euro. Avverte perciò che i governi devono fare di più per contenere i deficit dei loro bilanci.
La politica monetaria si trova quindi stretta tra la stabilità dei prezzi e la stabilità finanziaria. Sulla base del mandato ricevuto a Maastricht, la Bce sceglierà certamente il primo obiettivo, passando la patata calda alle autorità di governo. Poiché per la natura di tassa traslabile dell’inflazione importata l’aumento dei prezzi si realizzerà comunque, il problema che si pone è quindi se il mandato ricevuto a Maastricht sia corretto o se esso deve adeguarsi a quello assegnato alla Fed statunitense di perseguire lo sviluppo sotto vincolo di inflazione.
Non si vede perché un’area monetaria che ambisce di avere l’euro come moneta di riserva ufficiale concorrente al dollaro possa discostarsi dall’impostazione americana, creando le condizioni per accentuare le diversità interne tra saggi di crescita del reddito e dell’occupazione, per mantenere una stabilità relativa dei prezzi qualsiasi sia l’origine delle spinte inflazionistiche.

Fonte: Il Messaggero del 15 aprile 2011

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