• domenica , 22 Dicembre 2024

La moda va sul camion

Meno costi fissi e clienti inseguiti su strada: così le boutique scelgono la “mobilità”.
Il suo è un negozio di moda un po’ particolare: una boutique su quattro ruote spesso parcheggiata sulla 125esima strada, la via più animata di Harlem, tra Lenox Avenue e l’Adam Clayton Boulevard. Nneka Gren-Ingram, un’autista di autobus di New York con lo spirito dell’imprenditrice, ha deciso di investire i suoi risparmi nell’acquisto di un vecchio camion per la consegna dei Cheetos, patatine fritte e altri snack prodotti da una sussidiaria della Pepsi Cola, che ha trasformato in una piccola ma accogliente boutique nella quale vende capi vintage e abiti nuovi, scarpe, accessori, bigiotteria. Tutto scelto con gusto e venduto a prezzi mai superiori ai 100 dollari. Il successo le ha portato elogi, ma ha messo in allarme gli eleganti negozi del vicino Upper East Side che ora temono di ritrovarsi in strada la concorrenza di Nneka o di altre boutique low cost. Il suo, infatti, non è un caso isolato. Nato in California, il fenomeno dei negozi di moda ambulanti si sta ormai diffondendo in tutti gli Stati Uniti. Ad alimentarlo è stato il successo travolgente dei “gourmet food truck”: i ristorantini mobili che non servono più solo gelati o banali hot dog ma che, nelle mani di veri chef, sformano piatti di qualità, si specializzano in cucine etniche, pietanze vegetariane, perfino diete “low carb”. Questi “camion del gusto” sciamano ormai per le vie di Manhattan, Boston o Washington e, a ora di pranzo, non è insolito vedere davanti a loro interminabili file di impiegati usciti dai palazzi di uffici. Anche le origini dei “fashion truck” sono californiane. Cominciarono nel 2010 a Los Angeles Stacey Steffe e Jeanine Romo lanciando un negozio mobile chiamato proprio “Le Fashion Truck”. In meno di tre anni le boutique mobili sono diventate centinaia in California (dove è nata pure la West Coast Mobile Retailing Association) e nel resto degli Usa. Iniziative prese quasi sempre da donne imprenditrici che vogliono creare qualcosa di nuovo o che hanno chiuso, negli anni della crisi, un negozio fisso diventato troppo costoso da mantenere. Nneka non ha la fila davanti al camion, ma fa buoni affari. Col successo sono arrivati i controlli, anche perché avere la licenza a New York non è affatto facile. Ma lei ha tutte le carte in regola. Sono state invece fatte sloggiare Joey Wolffer e Sara Droz che non possono più vendere per le strade di Manhattan, ma continuano a scorrazzare col loro camion sulla East Coast dagli Hamptons, le località balneari newyorchesi sulle spiagge di Long Island, fino a Palm Beach, in Florida.
CALIFORNIA
Dopo Dacca, chi fa la corsa all’etica
Dopo la strage nel Bangladesh, il crollo della fabbrica di Dacca in cui sono rimasti uccisi più di 1.100 lavoratori stipati come bestie, i giganti della distribuzione di abiti – da H&M a Zara, alla Tesco – si sono affrettati a sottoscrivere un piano che, tra standard minimi di sicurezza, introduzioni di controlli e aumento dei salari minimi, dovrebbe scongiurare il ripetersi di simili tragedie e migliorare il tenore di vita della manodopera. Gli americani si sono divisi: Pvh (Calvin Klein, Izod, Tommy Hilfiger) ha sottoscritto il piano, Wal-Mart no, ma ha comunque varato un suo codice alternativo. Tutti a esibire buoni propositi per il futuro e non solo per qualche sussulto etico. Anche se dopo la tragedia molti lo hanno chiesto, nessuno ha voglia di lasciare il Bangladesh, terzo esportatore mondiale di vestiario (dopo Cina e Italia) col rapporto salari-produttività più conveniente al mondo, con gli operai pagati la metà di quelli pachistani o della Cambogia e un quinto di quelli cinesi. Meglio spendere di più e salvare il business. Tra i ceti più facoltosi e sensibili a temi sociali e ambientali, prende quota il movimento buy local che gli attivisti provano a estendere dal food all’abbigliamento. Con pochi risultati, vista la difficoltà di risalire al reale produttore e alle condizioni di lavoro negli stabilimenti. Giusto singole boutique e i 250 negozi della catena American Apparel commercializzano solo capi “ethically made”: l’1% del mercato. Ma i grandi distributori temono che, con nuovi incidenti, il tam tam del “buy local” possa riprendere e danneggiare il loro business.

Fonte: Corriere della Sera del 24 maggio 2013

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