L’ostinazione con cui Berlino respinge l’invito a guardare più in là del proprio naso nella soluzione della crisi dell’area euro stupisce e al tempo stesso non sorprende. Il comportamento del Governo tedesco replica infatti quello tenuto vent’anni fa in occasione dell’unificazione della Germania: la conservazione di uno status quo che solo il tempo dimostra essere indifendibile.
Le modalità attraverso le quali l’unificazione tedesca è stata realizzata negli anni Novanta avevano l’obiettivo di proteggere gli equilibri sociali e politici della Germania occidentale. Il risultato fu l’opposto, disintegrando il Modell Deutschland e costringendolo a cambiare profondamente in ragione della propria insostenibilità. Il cancelliere Kohl impose un tasso di cambio irrealistico tra le due Germanie con l’obiettivo di evitare un “contagio demografico” cioè una migrazione verso Occidente della popolazione della Ddr.
L’applicazione degli onerosi contratti di lavoro occidentali alle nuove regioni avvenne su accordo congiunto di organizzazioni sindacali e imprenditoriali dell’Ovest per evitare che si creasse un enclave a bassi costi salariali a Est in grado di esercitare competizione su imprese e posti di lavoro.
Calibrati sulle esigenze politiche occidentali, i due elementi primari di costo – il tasso di cambio e il costo del lavoro – causarono l’immediato declino dell’attività economica e tassi di disoccupazione eccezionalmente elevati nei Nuovi Länder. L’onere fu tale da gravare sull’intero Paese ed estendere la disoccupazione e la stagnazione anche alla Germania occidentale. L’errata restrizione monetaria della Bundesbank completò il cerchio esportando la crisi all’intera Europa e facendo saltare il sistema monetario europeo.
Vent’anni dopo la conservazione di uno status quo tedesco immaginario sta riproducendo gli stessi errori. Per lungo tempo la Germania si è convinta di essere estranea alla crisi – al contrario ha acquisito uno status di Paese rifugio che beneficia di tassi d’interesse negativi e di un tasso di cambio alleggerito dalle debolezze dei partner – e tuttora non la capisce, ritenendo che abbia cause fiscali. Ma la reazione fondamentale è ancora quella di conservare lo status quo, cioè arginare gli effetti della crisi dall’interno del proprio Paese. I Paesi partner per esempio devono diventare fiscalmente sterili qualunque siano le conseguenze sulle loro economie. Proprio come i Nuovi Länder negli anni Novanta.
Come con l’unificazione, e come avvenuto fin dal primo salvataggio della Grecia, il risultato probabilmente sarà ancora una volta il contrario di quello cercato: la crisi finisce per aggravarsi e costare sempre di più. Si vedrà se, ancora una volta, una concezione tedesca sbagliata della stabilità monetaria abbatterà l’integrazione europea come la Bundesbank riuscì a fare già nel ’93.
Fa parte di questa gabbia mentale la confusione – tragica, in filosofia politica – tra integrazione e identità. Integrare l’Europa non significa far diventare ogni Paese come la Germania. Un’area economica comune vive di zone, Stati o regioni, ognuno diversamente specializzato e che inevitabilmente hanno produttività diverse, tassi di sviluppo differenti e anche bilance dei pagamenti in squilibrio, proprio come il Mississippi e il Massachusetts. Anche l’unificazione tedesca non fu un’integrazione, ma un’identità. Ma quello che era difficile tra le due Germanie è impossibile tra 17 Paesi.
La miope difesa di Berlino
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