• lunedì , 23 Dicembre 2024

La lobby del petrolio cerca alternative

Se si potesse chiedere al benzinaio un pieno ‘made in India’ il risparmio sarebbe assicurato. Benzina e gasolio che arrivano dalle raffinerie del subcontinente indiano, ma anche dalla Cina e dal Golfo, nonostante il viaggio che devono affrontare, il costo del trasporto, dell’assicurazione e via dicendo, hanno un prezzo decisamente più basso dei prodotti che escono dagli impianti di raffinazione nazionali. È per questo che l’import cresce: nel 2009 10,5 milioni di tonnellate di prodotti finiti sono sbarcati dalle navi cisterna nei nostri porti e sono entrati nella rete, lungo le strade di casa, e il 7 per cento viene dall’Asia. Nei primi quattro mesi di quest’anno la quota è in crescita, e il peso dell’Asia anche, con l’attivismo preponderante di un gigante appunto indiano, la Reliance, che solo nell’ultimo trimestre dell’anno passato ha incrementato del 210 per cento il suo export di gasolio verso l’Europa, affamata di questo carburante.
Naturalmente un pieno made in India non si può chiedere, né si potrà mai sapere da dove viene la benzina che consumiamo, ma il fenomeno dell’import la dice lunga sui cambiamenti che stanno minando le sicurezze dei petrolieri: dice, innanzitutto, che in qualche parte del mondo c’è chi riesce a produrre a costi più competitivi dei nostri,e anche che la nostra rete distributiva potrebbe, se volesse, affrancarsi dai tradizionali fornitori. ‘La metà della rete è già di proprietà privata e non fa capo alle compagnie’, osserva Pasquale De Vita, presidente dell’Unione petrolifera, ‘un domani, potrebbe rifornirsi dagli importatori’. Con quali effetti sui prezzi finali? Difficile prevederlo, perché troppi sono i fattori in gioco; più facile capire perché già da oggi gli industriali del petrolio siano in allarme: tra consumi in calo (del 6,6 per cento nel 2009 sul 2008, pari a oltre 5 milioni di tonnellate) e margini di guadagno sempre più risicati, un business tradizionalmente florido – tanto da essersi meritato la ‘Robin tax’ di Giulio Tremonti col consenso generale – comincia a tirare la cinghia. Anche perché persino il tradizionale canale commerciale su cui potevano contare, cioè l’export di prodotti finiti, oggi ha perso smalto. Gli Stati Uniti comprano meno, i mercati mediterranei o quelli del Golfo sono invasi dagli aggressivi concorrenti asiatici, oppure fanno da soli, avendo costruito capacità di raffinazione in proprio.
Ma il segnale di un nuovo clima tra i consumatori lo ha dato la voce carburanti, finora tradizionalmente in crescita. Nel 2009 il consumo della benzina è sceso del 4 per cento, e quello del gasolio del 2,3. In totale, un milione di tonnellate di prodotto sono sparite dal mercato. La benzina, prevedono centri studi come Wood McKenzie, calerà ancora. Il gasolio no, perché agli automobilisti piace il diesel, ed è con quello che si riempiono i serbatoi, in Italia e in tutto il continente. Se fino a pochi anni fa il rapporto tra benzina e diesel era di due a uno, ora si è rovesciato, e arriverà a uno a quattro entro il 2020. Peccato che ciò non sia una buona notizia per i petrolieri: gli impianti di raffinazione esistenti non sono in grado di produrre più gasolio. Per farlo, le compagnie dovrebbero impegnarsi in nuovi investimenti, cammino che di questi tempi appare più rischioso che mai, irto com’è di vincoli ambientali crescenti.
Improvvisamente, il mondo delle regole si è fatto severo con i signori del petrolio, e la loro leggendaria forza lobbistica ha dovuto cedere il passo ad altri interessi. Prima di tutto quelli che l’Europa ha riassunto nella formula del 20-20-20: taglio della CO2 e aumento delle fonti alternative come obiettivo tra dieci anni. Produrre più gasolio richiede non solo nuovi impianti, ma anche un processo che produce molte più CO2. Dunque, l’industria del petrolio si trova in trappola: ha investito per produrre benzina, e ora non sa che farsene, il mercato vuole il gasolio, ma produrlo mette il settore in rotta di collisione con gli obiettivi ambientali europei. La crisi dei consumi ha ridotto i margini, e la concorrenza dei produttori del mondo in via di sviluppo fa il resto.Un disastro su tutti i fronti.
Ma il settore è troppo grande e potente per rassegnarsi a prenderle e basta. E così si sta muovendo per far pesare le sue ragioni. A livello europeo è scesa in campo Europia, che associa i petrolieri del continente, con un libro bianco in cui lancia un allarme sui rischi che la fragilità crescente.

Fonte: Espresso del 23 luglio 2010

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