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La lezione di un popolo

La forza spaventosa di un’onda che travolge case, treni, auto, scaglia via navi, invade aeroporti. Ma anche le immagini di edifici che, pur perdendo cornicioni e controsoffitti, restano quasi intatti, e di un popolo che reagisce con compostezza a una tragedia immane. Gente che si rimbocca le maniche applicando una lezione mandata a memoria in decenni di addestramento.
Il terremoto che ha colpito l’altra notte la costa settentrionale del Giappone e lo tsunami che è seguito hanno sicuramente prodotto distruzioni immense. Il bilancio in termini di vite umane che emergerà quando le macerie saranno state rimosse e le acque si saranno ritirate sarà pesante, migliaia di vittime. Ma è davvero poco rispetto ai 300 mila morti provocati un anno fa ad Haiti da un terremoto del settimo grado della scala Richter, infinitamente più debole di quello (8,9 gradi) che ha colpito ora il Giappone. L’allarme maggiore, ora, è quello nucleare. Il blocco delle centrali ha funzionato ma la rottura del circuito di raffreddamento di un reattore spaventa. Effetto della potenza straordinaria di una scossa che ha addirittura spostato di 10 centimetri l’asse della Terra. Il terremoto più violento mai registrato, da quando esistono i sismografi, in Giappone: un Paese fin qui colpito dal 20 per cento dei sismi ad alta intensità avvenuti nel mondo. Un triste primato che ha però consentito al Paese di prepararsi con grande serietà ed efficacia ai cataclismi che lo sconvolgono periodicamente.
Un’esperienza che deve far riflettere altre comunità, come la nostra, particolarmente vulnerabili alle catastrofi naturali, compresi gli eventi sismici. Avesse colpito l’Italia centrale, dice un esperto come Bertolaso, questo terremoto avrebbe raso al suolo Roma. Oggi, forse, conteremmo i morti a milioni. Difendersi dalla violenza della natura, ovviamente, non è sempre possibile.
Ma da noi tendono a prevalere due reazioni: il fatalismo davanti all’imponderabile e la rinuncia a costruire strutture potenzialmente vulnerabili – ponti particolarmente audaci, centrali nucleari – considerate una «sfida alla fortuna». Il Giappone, ben più vulnerabile dell’Italia, fu tentato da una scelta rinunciataria – quella di spostare la capitale – dopo il terremoto del 1° settembre 1923 che fece 100 mila morti a Yokohama e distrusse buona parte di Tokio. Invece scelse di reagire, di ricostruire tutto dandosi severi criteri antisismici, ma senza rinunciare a ponti, grattacieli, autostrade, treni-pallottola e reattori nucleari (il Paese ne ha 55). Non una sfida alla sorte, ma la ferrea volontà di non rinunciare alla crescita, pur preparandosi al peggio. Certo, la frequenza degli eventi sismici ha aiutato questo popolo ad addestrarsi con molta serietà mentre l’insularità del Paese e l’omogeneità della sua popolazione – che rappresenta uno svantaggio dal punto vista economico e demografico per il rapido invecchiamento – in casi di questo tipo fanno emergere la coesione sociale e la solidarietà, oltre alla disciplina.
Ma la coesione sociale è anche frutto della consapevolezza dei rischi e della determinazione a investire un volume enorme di risorse – umane ed economiche – per contenerli il più possibile. Città interamente ricostruite applicando (senza truffe o furbizie) regole più severe. Il primo giorno di scuola dedicato all’addestramento antisismico. Il 1° settembre, l’anniversario della tragedia di Yokohama, diventato festa nazionale: un Paese che quel giorno celebra il suo riscatto e al tempo stesso effettua compatto – primo ministro in testa – una prova di evacuazione.
Uno sforzo enorme che ha assorbito una fetta notevole della ricchezza prodotta dal Paese. E che ieri ha dato i suoi frutti.

Fonte: Corriere della Sera del 12 marzo 2011

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