Rimandare ancora gli interventi necessari significa far marcire i problemi. Confindustria ha ragione da vendere. E una bella prospettiva da raccontare agli elettori
Bravo, Squinzi. Il grido dallarme siamo in emergenza, serve una svolta subito lanciato dal presidente della Confindustria, oltre ad essere lunica cosa seria che in questi giorni di campagna elettorale mi sia stato dato di ascoltare, ha una triplice valenza positiva. La prima è quella di riaccendere riflettori sulla reale condizione, tuttaltro che buona, della nostra economia, di cui dopo la discesa degli spread dovuta alla Bce e al chetarsi della crisi europea si era persa leffettiva percezione. La seconda è quella di offrire agli italiani alle prese con il rebus del voto, il punto di vista di chi, conoscendo lo stato di salute dellapparato produttivo, segnala il pericolo di una politica che, per ignavia o ignoranza, parla daltro. La terza valenza, infine, è quella di aver rilanciato limmagine della Confindustria, che in effetti era assai bisognosa di riconquistare lautorevolezza e la centralità da tempo perduta.
In effetti, se ci pensate, è paradossale come tutti i protagonisti delle elezioni, nessuno escluso, stiano usando lo stesso metro comunicativo nei confronti degli elettori: aggiustare i danni sociali arrecati dalla crisi, fino a ridare indietro ciò che si è tolto, usando unequità fin qui non praticata. Ora, è ben vero che un aspetto di quellemergenza di cui ha parlato il numero uno della Confindustria riguarda limpoverimento, relativo e assoluto, che ha generato la perdita di 7 punti e mezzo di pil (cui si aggiungerà la recessione 2013) e quella, conseguente, di quasi 600 mila posti di lavoro (cui andrebbero aggiunti i cassintegrati senza reale prospettiva). Effetti che peraltro non toccano solo i ceti più in basso nella gerarchia sociale. Ma questa avrebbe senso essere lunica preoccupazione e dunque il solo punto di vista da cui partire, se la crisi fosse finita. Invece non è così. Bankitalia prevede che la recessione ci porti via ancora almeno un punto di ricchezza nazionale, le stime su livelli produttivi e occupazione sono pessime. Dunque, sta proprio in questo il valore delle parole di Squinzi indicare al Paese che lincendio non è affatto domato prima ancora di quella che ha chiamato terapia durto, imperniata su tre mosse (pagamento immediato di 48 miliardi di debiti commerciali accumulati da Stato ed enti locali; cancellare lIrap; tagliare dell8% il costo del lavoro nel manifatturiero) che pure sono condivisibili.
Questo significa che ci aspettano altri sacrifici? È probabile. Capisco che non sia argomento da campagna elettorale per come la concepiamo noi ma è così. E non dirlo agli italiani, o peggio dir loro il contrario, non è cosa neutra. Perché rimandare vuol dire far marcire i problemi e quindi peggiorare le cose, e quando arriverà (perché arriverà) il momento di guardare in faccia la realtà, risulterà mille volte più difficile prendere provvedimenti e sarà impossibile creare il giusto clima di reazione nel Paese. Ma Confindustria sostiene, a ragione, che mobilitando 316 miliardi di euro in cinque anni, cosa possibilissima se si fanno le riforme e si mette mano al patrimonio pubblico, il pil aumenterà di 156 miliardi di euro (al netto dellinflazione) e loccupazione crescerà di 1,8 milioni di unità, facendo scendere il tasso di disoccupazione all8,4% (dal 12,3% atteso per il 2014). Non è forse una bella prospettiva da raccontare agli elettori?
La lezione di Squinzi
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