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La lezione della Fed: l’Europa “tedesca”sta sbagliando strada

A che punto siamo della notte? Per saperlo bisogna partire sempre dall’analisi dell’economia reale. Nell’area euro siamo quasi in recessione (Pil: -0,3% nel quarto trimestre 2011 e -1,6% previsto dall’Ocse per il primo trimestre 2012); aumenta l’inflazione (2,7% a febbraio 2012); diminuisce l’occupazione (-0,2% nel quarto trimestre 2011); siamo in pieno credit crunch. Aumenta il malessere sociale, e lo spread risale pericolosamente in tutti i Paesi.
Che aria tira, invece, negli Stati Uniti? Nonostante la crisi finanziaria globale sia partita proprio da lì tra il 2007 e il 2008, oggi l’economia Usa è in espansione (+3% nel quarto trimestre 2011); l’inflazione è stabile (2,9% a febbraio 2012); il tasso di disoccupazione è in continuo miglioramento; non ci sono problemi di credit crunch, anzi le imprese sono sedute su montagne di liquidità, e i titoli americani, nonostante i rendimenti bassi, e nonostante un rapporto debito pubblico/Pil federale di 15 punti superiore a quello medio dell’area euro, pari all’87%, sono appetibili non solo negli Stati Uniti ma a livello mondiale.
È evidente che, quanto a ricette di politica economica e a regole e comportamenti delle istituzioni finanziarie, soprattutto pubbliche, gli Stati Uniti ci sanno fare meglio di noi, vecchia Europa a trazione tedesca.
Per capire la lezione americana ci viene in soccorso Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, che tra il 20 e il 29 marzo 2012 ha tenuto quattro lezioni magistrali all’Università George Washington sul tema “La Federal Reserve e il suo ruolo nell’economia di oggi”.
Anche se la storia di successo americana parte da lontano. Con la genesi del federalismo fiscale negli Stati Uniti.
Dopo l’adozione della Costituzione americana (1787), primo Segretario al Tesoro (1789) fu Alexander Hamilton. Sotto la sua guida, il governo federale si fece carico dei debiti di guerra di tutte le ex colonie ed emise nuove obbligazioni federali, sostenute da tasse dirette e da una moneta comune. La giovane Repubblica americana si trasformò subito in una potenza economica.
Cosa succederebbe se facessimo lo stesso anche noi? Se l’unione tra i Paesi dell’area euro funzionasse come negli Stati Uniti avremmo un indebitamento rispetto al Pil pari all’87%, molto migliore di quello americano (102%).
Modello Usa quindi, ma attenzione alle differenze tra i due continenti: 1) negli Stati Uniti Hamilton creò l’unione politica e a questa fece seguito l’unione fiscale; l’Europa sta seguendo il percorso inverso: si parte dall’unione fiscale (moneta unica) per realizzare, a fatica, l’unione politica. 2) Negli Stati Uniti l’integrazione venne promossa per preservare una nuova nazione e la libertà conquistata con la guerra; in Europa l’integrazione viene promossa per salvare una moneta in forte crisi. 3) La Federal Reserve fu istituita nel 1913 per agire come prestatore di ultima istanza; in Europa, invece, la banca centrale non può concedere prestiti ai governi e l’austerità sta uccidendo la crescita.
Fin qui la storia. Ma torniamo a Ben Bernanke, e alle sue lezioni su come la crisi degli ultimi anni è stata affrontata negli Stati Uniti: la Federal Reserve ha utilizzato gli strumenti che ha a disposizione per garantire al Paese stabilità economica e stabilità finanziaria.
Nelle prime due lezioni Ben Bernanke spiega come quello da cui tutto ha avuto origine sia stata un’improvvisa e repentina perdita di fiducia nelle istituzioni finanziarie private da parte dei risparmiatori americani, che hanno ritirato in blocco i loro depositi in banca.
In ossequio al ruolo di prestatore di ultima istanza – prosegue Ben Bernanke – la Federal Reserve è intervenuta fornendo liquidità alle banche americane, attraverso la concessione, a fronte di garanzie reali, di prestiti a breve termine. Le banche hanno utilizzato la liquidità, così ottenuta, per soddisfare le richieste di rimborso dei clienti, evitando di fatto il fallimento, e la situazione sui mercati si è stabilizzata: il meccanismo ha ricominciato a funzionare, il flusso di credito è ripreso ed è ripartita la crescita.
Nella quarta lezione, il 29 marzo 2012, Ben Bernanke si concentra sull’altro ruolo fondamentale che, da Statuto, svolge la Federal Reserve: quello di definire la politica monetaria degli Stati Uniti. Di questo strumento si è servita negli anni della crisi per riportare l’economia americana su un sentiero di stabilità. Seguendo tre linee direttrici: 1) fissando a un livello basso i tassi di interesse (fermi allo 0,25% dal 16 dicembre 2008), in maniera tale da stimolare i consumi, la produzione e l’occupazione; 2) acquistando buoni del Tesoro americano e obbligazioni di società para-statali (quantitative easing). Con questa strategia, messa in atto tra marzo 2009 e novembre 2010 per un totale di 2 mila milioni di dollari, si è dato ulteriore ossigeno ai mercati finanziari, con conseguente ripresa anche dell’economia reale; 3) adottando un piano di comunicazione improntato alla trasparenza. In questo modo, imprese e cittadini americani sono tutti al corrente delle motivazioni delle scelte della Fed e sono nelle condizioni di orientare al meglio i propri comportamenti nel lungo periodo.
Il risultato di tutto ciò? I dati reali che abbiamo esposto all’inizio. Più un altro: per ristabilire fiducia nelle istituzioni finanziarie americane, durante la primavera del 2009 la Federal Reserve ha effettuato intelligenti stress test sulle 19 banche americane più grandi. A seguito del risultato positivo di questi test, gli istituti interessati hanno potuto raccogliere sul mercato fondi privati per 140 miliardi di dollari. Anche l’Autorità Bancaria Europea (Eba) nel 2011 ha fatto degli stress test sulle banche dell’area euro. L’effetto (o il fine), però, è stato diverso: l’affossamento. Le banche europee, infatti, sono state costrette a calcolare il valore dei titoli di Stato in portafoglio secondo il criterio, stabilito dall’Eba l’8 aprile 2011, del mark to market. Hanno dovuto, cioè, scontare il presunto rischio di fallimento dei Paesi emittenti i titoli. Quindi svalutare. Quindi ricapitalizzare. Nel frattempo precipitare in borsa e vedere rarefarsi la liquidità, con il relativo credit crunch.
Nell’area euro ogni ondata di crisi è avvenuta sulla base delle percezioni, più o meno motivate, di qualche decina di banche internazionali che, approfittando dell’ennesimo ciclo di debolezza dell’euro, hanno deciso di intervenire sui mercati vendendo i titoli di Stato, con conseguente aumento dei rendimenti soprattutto dei titoli del debito pubblico di quei Paesi che venivano momentaneamente percepiti come più deboli e di cui si è arrivati a paventare, addirittura, il rischio default. Senza alcuna reale motivazione. Perché tali non possono essere le politiche economiche e le riforme che nei singoli Paesi vengono via via democraticamente decise e implementate.
I dibattiti parlamentari e gli scioperi fanno parte della fisiologia democratica: non è possibile che a ogni singolo sospiro di vita politica nazionale si scateni la speculazione. È un parossismo inaccettabile, dovuto all’indecisione dell’Europa. Ancora una volta siamo di fronte al paradosso masochistico di aver creato una moneta comune, che non ha alle spalle una banca centrale forte, né una politica economica condivisa e che per questo diventa oggetto di scorribande periodiche, con Paesi diversi, di volta in volta, nell’occhio del ciclone.
Tutto ciò ha finora portato a politiche economiche sbagliate, perché recessive. Il balbettio temporale sulla dotazione finanziaria del Meccanismo Permanente di Stabilità (European Stability Mechanism – Esm), il famoso firewall per difendere l’area euro dal rischio contagio, e lo stesso Fiscal Compact, ne sono la rappresentazione più cruda e più amara: troppo tardi e troppo poco.
In questo contesto, l’unica operazione intelligente a livello europeo è stata l’estemporanea creazione di liquidità, all’americana, da parte della Banca Centrale Europea, con le due aste di credito alle banche del 21 dicembre 2011 e del 29 febbraio 2012. Una mossa non perfetta, probabilmente foriera di altri squilibri, ma che negli ultimi mesi è riuscita a dare respiro ai mercati. Non perfetta, si diceva, perché le banche hanno utilizzato i prestiti a interesse agevolato dell’1% per mettere a posto i propri bilanci a seguito dei nefasti effetti delle raccomandazioni dell’Autorità Bancaria Europea (già ricordate), e degli obblighi di capitalizzazione previsti da Basilea 3 (del 12 settembre 2010).
E fermiamoci qui, con le lezioni americane. Adesso bisogna agire, e il professor Monti usi il suo prestigio, la sua competenza e il peso dell’Italia per far diventare americana, e non tedesca, la politica economica dell’Europa e la politica monetaria della Banca Centrale Europea. Ci si salva, o si affonda, in Europa! Non in Italia, non in Grecia, non in Spagna. Mettiamocelo bene in testa. L’alba o viene per tutti, o continuerà la notte.

Fonte: Il Giornale del 2 aprile 2012

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