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La legge Biagi ha ridotto la disoccupazione ma si può migliorare

Tra i temi che la sinistra ha posto sul tavolo del Governo (nella preparazione del Dpef) è il riassetto della riforma Biagi. Sotto il profilo formale, la richiesta non è priva di fondamento in quanto il programma dell’Unione contemplava addirittura l’abrogazione del decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (che rappresenta il cuore della riforma). Anche sotto il profilo sostanziale, non è immotivato domandarsi a quattro anni circa dal varo delle nuove regole per il mercato del lavoro se non sia il caso di sottoporle ad aggiornamento. Anche e soprattutto alla luce dei risultati.
Uno degli esiti che meglio si toccano con mano è la significativa riduzione del tasso di disoccupazione (ora al 6,5% della forza rispetto ad oltre il 9% segnato quattro anni fa). Anche se nel nostro Paese il tasso di occupazione (ossia il rapporto tra gli occupati e la popolazione in età da lavoro) resta basso (sfiora il 60% rispetto alla media Ue del 65%), negli ultimi 4 anni il numero di occupati è aumentato di oltre un milione e mezzo di unità. L’ultimo rapporto Istat sottolinea che la contrazione dell’inserimento al lavoro dei più giovani (15-24 anni) non deve preoccupare: è più che bilanciata dalla riduzione del tasso specifico di disoccupazione (notevolmente inferiore alla media Ue). Dimostra quindi uno spostamento in avanti nell’ingresso nella vita attiva, confermato dal prolungamento della media degli anni di istruzione.
Tutto bene, quindi? La riforma Biagi ha, senza dubbio, dato un contributo importante a questi risultati. Anche se non è aumentata in misura significativa la percentuale degli occupati con contratti a termine (o simili) sul totale dei lavori dipendenti (sul 13% prima della Biagi ed ora attorno al 15%), c’è il rischio di un mercato del lavoro duale: da un lato, chi ha contratti a tempo indeterminato (con pertinenti opportunità di carriera) e da un altro, chi salta da un contratto a termine ad un altro (senza uguali chance di progressione). Non ci sono ancora studi longitudinali su un periodo abbastanza lungo di anni per validare o meno l’esistenza di tale fenomeno (e delle sue dimensioni). Esiste, però, l’esigenza di creare “passerelle” per passare da un mercato all’altro (e di semplificare l’alto numero di fattispecie contrattuali, oltre 50, previste dalla Biagi).
E’ utile a riguardo l’esperienza di altri Paesi , esaminata di recente dall’Ocse e dall’Istituto federale tedesco di studi sul mercato del lavoro. Adattando le lezioni altrui alle condizioni specifiche dell’Italia, emergono due conclusioni:
• Da un canto, occorre rendere conveniente al datore di lavoro concludere contratti a tempo indeterminato piuttosto che a termine. E’ oggettivamente difficile stabilire salari differenziati (più alti per i contratti a termine) in quanto ciò scardinerebbe uno dei canoni del sistema – la contrattazione collettiva. Tuttavia, i meccanismi previdenziali contributivi, offrono un’opportunità: una più alta contribuzione datoriale di cui i lavoratori fruiranno grazie ad un montante previdenziale più elevato e pensioni più consistenti. Una ventina di Paesi hanno seguito la strada aperta nel 1995 da Italia e Svezia trasformando da retributivi a contributivi sistemi previdenziali a ripartizione. In alcuni casi, l’incentivo al contratto a tempo indeterminato è dato tramite la leva previdenziale.
• Da un altro, la “passerella” può essere costruita prevedendo che il lavoratore abbia titolo alla stabilizzazione dopo un certo numero di contratti a termine presso la stessa azienda oppure che, come avveniva con i contratti formazione e lavoro, l’azienda debba assumere almeno una proporzione di coloro che hanno lavorato a termine. Si possono ipotizzare numerose varianti; tutte presuppongono una semplificazione e delle fattispecie contrattuali e delle procedure da adottarsi in caso di esuberi.
Le varie combinazioni di queste due misure non snaturerebbero la riforma Biagi e conterrebbero la crescita di un mercato del lavoro duale.

Fonte: Italia Oggi del 6 giugno 2007

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