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La globalizzazione resisterà (ma con regole da aggiornare)

di Fabrizio Onida

“L’attuale era della globalizzazione non è finita ma sta in cattiva salute” titolava un editoriale del Financial Times dello scorso 25 maggio. Oggi l’orizzonte previsivo è oscurato dalla pandemia che ha provocato e ancora in parte provoca diffuse paralisi nella produzione e nei trasporti internazionali. Le prime stime della WTO danno per quest’anno una recessione senza precedenti nel dopoguerra (tra il 15 e il 30 percento nel volume degli scambi mondiali), riflesso di un crollo della domanda finale di consumi e investimenti nei paesi che pesano più della metà dell’economia mondiale. Crollo che si ripercuote a raggiera sull’altra metà, attraverso le interruzioni delle catene di fornitura globali. Ma i segnali di un netto rallentamento nei motori del commercio internazionale sono presenti da più di un decennio, a partire dalla Grande Recessione del 2007-08 (che dovrà probabilmente cambiare nome dopo la crisi in corso…).

Per ogni punto percentuale di crescita del Pil, fino agli inizi degli anni 2000 eravamo abituati a osservare mediamente circa due punti percentuali di crescita del commercio internazionale (un coefficiente di elasticità pari a 2), con la conseguenza che il grado di apertura (export/Pil o import/Pil) cresceva nel tempo. Oggi, con una elasticità pari a 1, il grado di apertura internazionale dei paesi si è tendenzialmente stabilizzato.

Ma è troppo poco per parlare di de-globalizzazione! Certamente nella pubblica opinione sono aumentate le voci degli “oppositori della globalizzazione” (a cominciare da Stiglitz 2002) e sono cresciuti i dubbi che la globalizzazione si sia spinta recentemente troppo avanti (Rodrik 1997), tanto più dopo i disastri della “finanza creativa” protafonista della crisi finanziaria del 2007-08. Ma, come lo stesso Dani Rodrik sottolinea nei suoi libri ricchi di pensiero ma scevri da ideologia, oggi vanno coltivate politiche di “globalizzazione intelligente” che accompagnino crescita delle imprese e occupazione del lavoro: politiche di protezione sociale combinate con investimenti in formazione continua e ricollocazione informata sul mercato del lavoro (non bastano i navigators!). Una globalizzazione inclusiva delle troppo larghe fette di popolazione che sistematicamente subiscono disuguaglianza, impoverimento e precarietà a causa dell’apertura dei mercati, perché fanno fatica a riconvertire le proprie capacità e la propria esperienza sotto la pressione delle veloci trasformazioni nei processi di specializzazione produttiva dei paesi. Non si dimentichi che epidemie e pandemie di per sé concorrono ad accentuare le disuguaglianze tra ceti sociali e territori all’interno dei paesi.

Ma una risposta efficace e credibile ai costi della globalizzazione non può certo provenire dal risveglio delle pulsioni di protezionismo e sovranismo che purtroppo attecchiscono nella pubblica opinione quando i governi non danno risposte convincenti ai “perdenti dalla globalizzazione”.
Serve comunque annotare le principali ragioni del rallentamento nel moltiplicatore del commercio internazionale citato poco sopra.
Primo, il progressivo esaurirsi della spinta liberalizzatrice degli scambi seguita all’ingresso della Cina nella WTO nel 2001, tanto più a seguito della recente guerra commerciale intrapresa da Trump in nome dell’”America first”.

Secondo, a complemento del punto precedente, il rapidissimo processo di sviluppo industriale della Cina medesima, che si è resa progressivamente meno dipendente dall’importazione di beni intermedi, parti e componenti, secondo il classico meccanismo della import substitution.
Terzo, alcune strategie di rientro nel paese della casa madre (“reshoring”) di fasi produttive precedentemente delocalizzate lontano da casa. Un ripensamento motivato dall’esigenza di un rigoroso controllo di qualità-affidabilità-tempestività di consegna del prodotto intermedio, come ad esempio nel segmento alto della moda. Come pure motivato dalla rivalutazione dei vantaggi di prossimità geografica del fornitore quando l’evoluzione tecnologica e l’ampliamento della gamma offerta di prodotto impongono una sistematica “customizzazione”del prodotto finale per adattarsi a precise esigenze del cliente: come avviene sempre più in produzioni estremamente differenziate e tecnologicamente sofisticate della meccanica fine , dell’elettronica, della chimica e farmaceutica.

Infine, sul minor moltiplicatore del commercio estero gioca anche un puro effetto di composizione statistica. In tutti i paesi cresce infatti nel tempo la quota dei servizi sul Pil, e nonostante il diffondersi dello “smart working” molti servizi si prestano meno alla divisione internazionale del lavoro rispetto all’industria manifatturiera.

In conclusione, parafrasando Mark Twain, la fine della globalizzazione e il rientro delle catene globali del valore sono notizie largamente esagerate. Ma mai come oggi i governi sono chiamati a “governare la globalizzazione” nell’interesse nazionale in un mondo aperto e interdipendente.

Fonte: da Sole24Ore, 12.06.2020

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