di Carlo Clericetti
Come la Corea del nord ha lanciato testate nucleari in mare per forzare una trattativa con gli Usa, così la Corte costituzionale tedesca lancia il suo missile contro la Bce per condizionare pesantemente le trattative in Europa. L’attesa sentenza sul ricorso di alcuni cittadini tedeschi contro il quantitative easing è arrivata, e dà tre mesi di tempo alla banca centrale per giustificare il suo comportamento, ritenuto dalla corte di Karlsruhe una forzatura dei trattati europei. Il termine ultra-vires, “eccesso di potere”, ricorre più volte nella sentenza, che, anche se riguarda il precedente programma di acquisti, inevitabilmente coinvolge anche quello attuale, deciso da Francoforte per fronteggiare la crisi del Covid. E questo nonostante che la sentenza precisi subito che “Le attuali misure di aiuto finanziario dell’Unione Europea o della BCE in relazione all’attuale crisi non sono oggetto della decisione”.
Ma del precedente programma si afferma che la Bce non ha “esaminato né dimostrato nelle decisioni adottate per l’introduzione e l’attuazione del PSPP che le misure adottate sono proporzionate”. E se quello viene giudicato in tal modo, peggio sarà per l’attuale, in cui sono stati rimossi vari limiti, come quello del 33% massimo sull’acquisto delle emissioni e, soprattutto, quello degli acquisti in proporzione alla quota di capitale della banca detenuta da ogni paese (la “capital key”).
In seguito a un precedente ricorso, la Corte tedesca aveva investito della questione la Corte di giustizia europea, che nella sentenza in proposito – favorevole alla prosecuzione del programma – aveva però insistito proprio sui vari limiti decisi per la sua attuazione. Come ha commentato il giurista dell’Università di Ferrara Andrea Guazzarotti, “la Corte affermò, ricalcando le difese della BCE, che la ripartizione degli acquisti tra le banche centrali nazionali è effettuata conformemente all’art. 29 dello Statuto della BCE, «e non in funzione di altri criteri, come, segnatamente, il peso dei rispettivi debiti di ciascuno Stato membro». Il che varrebbe, sempre per la Corte di giustizia, a scongiurare che l’attuazione del QE possa «consentire a uno Stato membro di sfuggire alle conseguenze, sotto il profilo del finanziamento, scaturenti dall’alterazione della sua evoluzione di bilancio». Oltre a ciò, la Corte rileva che «i limiti di detenzione per emissione e per emittente enunciati implicano, in ogni caso, che soltanto una minoranza dei titoli emessi da uno Stato membro può essere acquistata dal SEBC nell’ambito del programma di acquisti, il che impone a tale Stato membro di ricorrere principalmente ai mercati per finanziare il proprio deficit di bilancio».” Insomma, proprio quei limiti, secondo la Corte europea, facevano sì che non si potesse parlare di finanziamento diretto agli Stati, vietato dalle norme europee.
Il limite del 33% doveva necessariamente essere abolito per questo nuovo programma, perché ormai la Bce era vicina a quel tetto su moltissime emissioni di quasi tutti i paesi, e quindi si sarebbe trovata nella condizione di non poter più fare acquisti. E quanto alla capital key, se si fosse continuato a rispettarla gli acquisti non avrebbero avuto alcun effetto sulla riduzione degli spread tra i vari paesi. Giova ricordare che quando la presidente Christine Lagarde si era lasciata sfuggire che la Bce non si sarebbe occupata degli spread ne era seguito un immediato crollo del mercati, tanto da costringerla a una repentina retromarcia che poco dopo sarebbe stata ufficializzata in un intervento del capo economista, l’irlandese Philip Lane.
In realtà la Bce non ha detto che la capital key sarebbe stata abbandonata, ma solo che in questa fase non sarebbe stata applicata, con una frase piuttosto ambigua che lascia spazio a future decisioni in proposito. Quanto era necessario per non contraddire la sentenza della Corte europea sopra citata, ma riservandosi di prolungare per un tempo indeterminato la sospensione del criterio. Per forza: qualora si dovesse tornare a rispettare le proporzioni della capital key, gli spread andrebbero alle stelle. Insomma, un vero e proprio slalom tra quanto è necessario fare per evitare una crisi finanziaria e le regole (sbagliate) a cui invece la Corte tedesca ha richiamato.
Che accadrà ora? Il comportamento dei tedeschi ricorda una famosa scena del film “Gioventù bruciata”. Il protagonista James Dean si lancia in una folle gara con un amico: correranno in auto verso un precipizio e vincerà chi riuscirà a fermarsi più vicino al ciglio. Dean riesce a salvarsi all’ultimo momento, ma l’amico sbaglia e precipita. I tedeschi più di una volta hanno portato l’Unione europea a un passo dal baratro. Finora si sono fermati in tempo, accettando ciò che era necessario anche se a loro non piaceva (come il whatever it takes di Mario Draghi). Ma continuano a sfidare la sorte, esponendo l’Unione a fare la fine dell’amico di Dean.
Ma c’è un altro aspetto di grande importanza che la sentenza tedesca afferma, e lo sottolinea Alessandro Somma, docente di diritto comparato alla Sapienza: “La Corte costituzionale tedesca non si reputa vincolata alla decisione della Corte di giustizia perché questa, a suo parere, si è mossa fuori dai trattati. E gli Stati restano i “Signori dei Trattati”, padroni di verificare il loro rispetto”. In altre parole la Corte tedesca non si ritiene subordinata a quella europea, quanto meno in materia di interpretazione dei trattati. Lo afferma con qualche capriola logica, visto che dapprima scrive che se ogni Stato si ritenesse in diritto di interpretare i trattati a suo modo , il primato dell’Unione sarebbe compromesso e così l’applicazione uniforme del diritto. Ma subito dopo aggiunge che gli Stati non possono però rinunciare a giudicare se le istituzioni dell’Unione siano cadute nell’ultra-vires, l’eccesso di potere. “Gli Stati membri dell’Unione Europea restano padroni dei trattati anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, e la Ue non si è evoluta in uno Stato federale”. Dice insomma una cosa e il suo contrario, ma la conclusione è chiarissima.
Una conclusione che naturalmente non è piaciuta alla Commissione, che in un comunicato afferma che “le decisioni della Corte Ue sono vincolanti su tutte le corti nazionali”, mentre la Bce ricorda che “La Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito, nel dicembre 2018, che la Bce sta agendo nel suo mandato per la stabilità dei prezzi”.
Reazioni piuttosto ovvie, ma non sono quelle che possono fermare in tempo l’auto lanciata verso il precipizio. In quel precipizio, nel 1992, la Germania ci fece precipitale lo Sme, l’accordo di cambio tra le monete europee precedente all’euro. L’accordo prevedeva che, qualora una o più monete raggiungessero il limite stabilito per la loro oscillazione, tutte le banche centrali dei paesi aderenti dovessero intervenire per difendere quella parità. Ma d’improvviso la Bundesbank dichiarò che avrebbe cessato qualsiasi intervento, perché proseguirli avrebbe messo in pericolo la stabilità tedesca. Immediatamente lo Sme esplose, con l’uscita di varie monete (per prima la sterlina, subito seguita dalla lira). In quella occasione fu fatto prevalere un accordo interno fra Bundesbank e governo rispetto all’accordo internazionale che era stato sottoscritto. Se quel comportamento si dovesse ripetere, potrebbe provocare la fine dell’euro.
(La Repubblica_blog del 6/5/2020)
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