La FIAT auto ha molte possibilità di risolvere i suoi problemi, a condizione ovviamente che sia messa in grado di affrontare i suoi problemi, che sono oggi quelli di un eccesso di capacità produttiva rispetto ad una domanda debole e che difficilmente ritornerà sui livelli del passato. La riduzione del personale ipotizzata dalla FIAT appare, purtroppo, in linea con le esigenze di riportare il punto di pareggio del bilancio a livelli più accettabili: impedire che tale operazione venga fatta o pretendere impossibili garanzie sul futuro dell’occupazione serve solo a rendere più difficile la soluzione di questa grande impresa. Chi ha a cuore la permanenza in Italia di qualche grande impresa e chi ritiene che senza grandi imprese l’Italia finisca per emarginarsi dal mercato moderno, fatto soprattutto di ricerca di innovazione e di servizi avanzati per le grandi imprese, dovrebbe battersi perché le grandi imprese possano avere quella flessibilità che è loro necessaria per affrontare crisi periodiche, come quella che la FIAT sta attraversando e che in altri paesi quasi tutte le grandi imprese hanno affrontato una o più volte nella loro vita.
Emerge in questo frangente l’assenza di adeguati ammortizzatori sociali che potrebbero essere approntati per soddisfare contemporaneamente le due opposte esigenze: quelle dei lavoratori che si trovano a perdere il posto di lavoro e quelle dell’impresa che deve ridurre i costi per recuperare un necessario punto di pareggio. In Italia non si riesce ad andare oltre alla cassa integrazione guadagni, che è strumento che presuppone il mantenimento del posto del lavoro ed il reintegro del lavoratore dopo un certo periodo, mentre l’assegno di disoccupazione resta molto limitato, così come poco sperimentate sono le vie per accompagnare il lavoratore verso una nuova attività. I recenti provvedimenti del patto per l’Italia fanno fare un passo in avanti nella direzione giusta, almeno per quanto attiene l’assegno di disoccupazione, ma mancano le risorse per una reale politica di assistenza al lavoro, dato che esse sono tutte impegnate nel sistema pensionistico italiano.
Per questo, a fronte di una crisi di una azienda della dimensione della FIAT si è disarmati e si finisce per tentare di escogitare soluzioni tanto fantasiose quanto poco praticabili, come addirittura forme di nazionalizzazione o sussidi di carattere straordinario. A sua volta, la ventilazione di ipotesi siffatte finisce poi per alimentare nel nostro paese quel sentimento di avversione che c’è sempre stato nei confronti della grande impresa, sopportata spesso come una sorta di “male necessario” da parte di molti della politica italiana che non sono riusciti a dominarla, o considerata come un parassita da parte di molti italiani. Eppure le poche grandi imprese italiane, siano esse private o pubbliche, sono quelle che hanno consentito al paese di uscire dall’autarchia imposta dal fascismo, di favorire quel miracolo italiano che, se si è basato sui tanti signori Borghi oggi giustamente ricordati, non avrebbe potuto esistere senza le auto della FIAT, l’acciaio dell’IRI, le gomme della Pirelli, la benzina dell’ENI, la chimica della Montecatini, solo per fare alcuni esempi. Se poi queste imprese sono anche quelle che hanno di più utilizzato le sovvenzioni pubbliche che lo Stato ha elargito, questo è avvenuto soprattutto perché esse hanno accettato di investire nel Mezzogiorno del paese contribuendo così a farlo uscire da un ritardo che, se oggi ancora esiste, è tuttavia ben inferiore a quello inimmaginabile che lo caratterizzava nel dopoguerra.
Ma l’avversione degli italiani verso la grande impresa è anche un aspetto particolare della più generale divisione che caratterizza profondamente il nostro paese e che gli impedisce di approntare soluzioni generali a problemi particolari che necessariamente si manifestano periodicamente. Siamo il paese ove l’avvento del maggioritario nel sistema elettorale politico ha condotto alla creazione di un numero di partiti superiore a quello che esisteva con il sistema proporzionale, sicché la lotta politica ha finito per trasferirsi all’interno delle due grandi coalizioni che formano il nostro imperfetto bipartitismo: il centro-sinistra non meno che il centro-destra, la maggioranza di governo non meno che l’opposizione, sono dilaniati da tensioni interne rappresentata da moltitudini di sigle spesso a carattere personale. Il mondo sociale vede i sindacati all’eterna rincorsa di una unità che non si riesce mai a realizzare, mentre aumentano le sigle delle rappresentanze dei lavoratori. Il mondo delle imprese, contrariamente a quanto avviene negli altri paesi, è suddiviso non solo tra settori (commercianti, artigiani, industriali, banchieri, assicuratori, agricoltori, ecc.), ma anche al loro interno, tanto che ci sono organizzazioni diverse a seconda della grandezza delle imprese, della loro storia, della proprietà del capitale, e così via.
Questa tendenza alla separatezza continua, tanto che si escogitano statuti, regole e legislazioni per contrastare questa o quella categoria in una effimera battaglia per emergere sugli “altri” che non lascia nel campo che sconfitti, come i famosi polli di Renzo, di manzoniana memoria, che si beccavano mentre erano portati al macello. E’ così che, per tornare all’argomento della FIAT, solo nel nostro paese si parla in tono dispregiativo di un provvedimento, come la rottamazione delle auto, che l’Italia ha adottato ben ultima in Europa e che è stato ritenuto come un regalo alla FIAT, laddove ha contribuito ad una ripresa congiunturale ed allo svecchiamento del parco auto che nel nostro paese è il più vecchio, mentre in altri esistono di fatto rottamazioni continue e permanenti dell’usato attraverso legislazioni che impongono revisioni periodiche ben più severe di quelle che si fanno nel nostro paese e che conducono spesso all’abbandono dell’auto usata e, quindi, all’acquisto di una nuova.
Per affrontare le sfide della globalizzazione al nostro paese servono sia le grandi che le piccole imprese. Serve soprattutto uno spirito di collaborazione che dovrebbe sorgere non tanto da una astratta solidarietà categoriale e corporativa, quanto da una più intelligente comprensione dei propri bisogni e quindi da un egoismo un po’ meno arcaico di quello che caratterizza il nostro paese.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 12 novembre 2002