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La fabbrica dei posti

A POCHE ore di distanza della ripresa del confronto tra il Governo e le forze sociali sui temi del mercato del lavoro, i dati sulla disoccupazione (soprattutto di quella giovanile) entrano prepotentemente all’interno di un dibattito difficile e fino ad ora inconcludente, nonostante che tali problematiche si intreccino indissolubilmente con quelle contenute nel decreto sulle liberalizzazioni ora all’esame delle Commissioni di Palazzo Madama. La crescita economica, infatti, dipende da molti fattori: da un’inversione in senso positivo di una congiuntura internazionale che ha deluso le aspettative più favorevoli; da un miglior coordinamento, a livello europeo, di interventi capaci di coniugare il risanamento e lo sviluppo. Ma potranno mettersi in grado di approfittare di questi auspicabili cambiamenti solo le economie nazionali che riusciranno ad essere più competitive, attraverso un uso più adeguato dei fattori produttivi. Ecco perché quelle misure che possono rendere più reattiva l’azienda Italia (le liberalizzazioni e la flessibilità del lavoro, appunto) rappresentano un passaggio obbligato dell’attuale fase politica, sollecitato dalla comunità internazionale e dai mercati.
LA UE afferma che la prima condizione per la crescita è quella di creare un ambiente favorevole per le imprese. È bene, allora, sgombrare il campo dai luoghi comuni che ammorbano il dibattito sul mercato del lavoro. Il problema più grave, per i giovani italiani, non è la precarietà, ma la disoccupazione. Si illude chi pensa di stabilizzare — a suon di norme e divieti — posti di lavoro che non esistono perché l’economia non ha saputo crearli. Fino al 2007, grazie alla legislazione sulla flessibilità del lavoro varata nel corso del decennio precedente, in Italia si sono avuti incrementi continuativi ed ininterrotti dell’occupazione (l’incidenza di quella femminile è aumentata di quasi dieci punti, pur restando a livelli ancora troppo bassi). Lo stesso fenomeno si è verificato, mediamente, in tutta l’area Ocse, dove si è avvertito, ovunque negli anni successivi, il peso della crisi sull’occupazione. Da noi le performance non sono lusinghiere. Secondo un recente studio di quella Organizzazione internazionale (su dati 2009, l’epicentro della crisi economica) un giovane italiano trova, mediamente, il primo impiego dopo 25,5 mesi dalla conclusione del ciclo formativo. Per acquisire un rapporto di lavoro a tempo indeterminato occorrono mediamente 44,8 mesi. Si tratta di performance tra le più negative tra i Paesi considerati. Per quanto riguarda il primo impiego hanno dati peggiori dei nostri soltanto la Finlandia (27,6 mesi) e la Spagna (34,6 mesi). Quanto al raggiungimento di un rapporto a tempo indeterminato stanno peggio di noi soltanto la Spagna e il Portogallo (con tempi superiori a 50 mesi). Negli Usa (miracolo della flessibilità!) i giovani entrano nel mercato del lavoro appena dopo 6 mesi. Più o meno come in Australia. Si tratta di un insieme di problemi da considerare nel momento in cui si affronta il tema della riforma del mercato del lavoro. Il «Governo degli Illuminati», a proposito della riforma dell’articolo 18, usa la clausola del «né…né»: non è un tabù, ma non è neanche una priorità. Verrebbe da porsi una domanda molto semplice: con una premessa. Si sostiene che la soppressione delle prerogative riconosciute ai professionisti insiders (come le tariffe minime, ad esempio) dovrebbe favorire l’accesso dei giovani alle professioni liberali. Perché un effetto analogo non dovrebbe verificarsi — mutatis mutandis — come conseguenza della riforma dell’articolo 18?

Fonte: Quotidiano.net del 1 febbraio 2012

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