• giovedì , 31 Ottobre 2024

La dottrina Fazio

Roma. Un tuffo nel mare della memoria, un balzo nei favolosi anni ’60 quando John Fitzgerald Kennedy lanciava la Nep, la nuova politica economica, stesso acronimo ma niente a che vedere con quella leninista. Affetto, nostalgia, nessun rimpianto, tanto meno una futile ricerca del tempo perduto. Antonio Fazio vuol ricordare Paul Samuelson, spentosi il 13 dicembre a 94 anni, il suo maestro, che di JFK fu consigliere. Nello studio in centro non ancora del tutto allestito, rilassato, asciutto, con l’eterna stilografica che spunta dal taschino, l’ex governatore della Banca d’Italia getta un filo tra le scoperte teoriche di allora e le inquietudini di oggi, le nuove acquisizioni della macroeconomia e la sua capacità di interpretare la realtà, anche quella presente, o di progettare entro i limiti della ragione, il futuro. “Samuelson è stato il maggior economista del secolo sorso e il più influente, dopo Keynes – dice – dietro di lui John Hicks e Milton Friedman; più astratto l’inglese più innovatore in teoria monetaria l’americano”.
Si parla di impotenza degli economisti, di incapacità nel capire la crisi attuale, di nuovo paradigma. Piano, piano. In verità, tornando ai fondamentali, quel che è accaduto nell’ultimo biennio non è poi così incomprensibile. Se non è stato evitato, si deve alle scelte degli uomini più che alle loro idee. “Non è affatto oscuro come la moneta sfugge di mano, il problema è che, dopo la fine del sistema di Bretton Woods, non c’è modo di regolarla su scala internazionale”. Ci vorrebbe una banca centrale globale, la quale richiede però un governo globale. Utopia, sogno irrealizzabile? Non esattamente. “Un governo mondiale della moneta c’è stato e l’abbiamo abbandonato nel 1971 quando la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro ha messo fine agli accordi di Bretton Woods”, insiste l’ex governatore. Ma facciamo un passo indietro, anche per capire meglio dove andiamo a parare.
Correva l’anno 1962 quando il giovane laureato, appena assunto in Banca d’Italia, sbarcò a Boston e in una piccola aula del Massachusetts Institute of Technology, che sarebbe poi diventato fucina di premi Nobel, vide per la prima volta Samuelson (al quale, del resto, toccò il riconoscimento più alto nel 1970, secondo in ordine di tempo dopo Jan Tinbergen e primo nella lunga serie di americani). L’ultimo incontro è stato nel 2007, in un sentimental journey a Boston con tutta la famiglia. Era il 22 agosto e Fazio non aveva nessuna idea di poterlo trovare nella stanzetta di sempre, immerso nella lettura, alla scoperta di nuove idee. Nel settembre dello stesso anno, in uno scambio di lettere, il grande economista ricordava che il “dear Antonio” era stato il primo governatore tra i suoi allievi, il secondo è Ben Bernanke. Ad insegnare a piccoli gruppi di cinque sei studenti al massimo, erano docenti del calibro di Kenneth Arrow, James Tobin, Franco Modigliani. E il modo in cui riuscirono a formalizzare la complessa, e per molti versi incompiuta, teoria keynesiana, a renderla uno strumento per comprendere la realtà e trasformarla, Fazio lo rammenta ancor oggi come una illuminazione. E’ grazie a quelle ricerche che, tornato all’ufficio studi della Banca d’Italia, Guido Carli Paolo Baffi gli diede l’incarico di vedere se era possibile realizzare un modello macro dell’economia italiana. I ricordi traboccano dal vaso della memoria. Come quando nel 1966 Ezio Tarantelli, brillantissima mente economica spenta dalle Brigate rosse, fece uscire dal suo magnetofono la voce di Joan Robinson, la keynesiana gauchiste della scuola di Cambridge con la quale proprio Samuelson aveva incrociato i ferri. O gli sforzi con i colleghi, a cominciare da Franco Cotula e Mario Ercolani, per mettere in correlazione l’economia reale e i flussi finanziari. “Samuelson scriveva le sue formule sulla lavagna – ricorda Fazio – ma aveva una capacità unica di calarle nella prassi, facendo capire a noi studenti come potevano essere applicate”. Possedeva una erudizione che metteva al servizio della sua cultura vastissima. Leggeva il tedesco e l’italiano.
Apprezzava molto Luigi Einaudi, anche se aveva criticato e sfidato la Teoria generale di Keynes fin dalla sua pubblicazione. “Nel 1997 invitai Samuelson a una delle lezioni Baffi organizzate dalla Banca d’Italia. E lui affrontò il mercato del lavoro, mettendo a confronto il modello americano e quello europeo. Mi ricordo che usò una espressione forte: le società diventeranno feroci, o forse disse spietate, nei confronti del lavoro. E illustrò il modo in cui reagivano gli Stati Uniti. Ebbene, anche quell’analisi diede un contributo alle riforme poi realizzate in Italia”. Non solo. Oggi bisogna dargli di nuovo ragione.
Il modello americano sta reagendo meglio di quello europeo. Si parla di ripresa senza occupazione ed ecco, invece, che gli ultimi dati smentiscono anche questa previsione. “Nel modello europeo l’aggiustamento è più lento – spiega Fazio – Il licenziamento non avviene subito, ma nel tempo, perché agisce sul turnover: in sostanza si attende che i lavoratori anziani escano dall’azienda e non li si rimpiazza. Negli Usa tutto è più rapido, sia l’uscita sia l’ingresso”. Un altro schema teorico confermato da questa recessione, sostiene l’ex governatore, è il ciclo delle aspettative analizzato da Keynes. All’abbassarsi delle attese rispetto al futuro, corrisponde un calo degli investimenti più che proporzionale, perché si tratta di adattare il livello del capitale. portandolo in linea con la produzione attesa. Il sistema si rimette in moto quando gli imprenditori capiscono che c’è spazio per nuova capacità produttiva. Ecco, quello è il momento di uscire, la exit strategy di cui si parla, può essere avviata quando si ripartono gli investimenti. Se lo stimolo viene ritirato prima, si rischia di ritardare la ripresa, dopo di drogarla.
In tutto il gran dibattito in corso sull’eccesso di debito pubblico e su come smaltirlo, Fazio occupa una posizione orientata non su formule tecniche, ma sul fattore umano. Ricorda quando il deficit pubblico italiano raggiungeva il 15 per cento del prodotto lordo e il mercato rifiutò le nuove emissioni di bot. Allora, venne sfiorato il rischio default. La Banca d’Italia chiamò i principali banchieri e li invitò ad acquistare i titoli pubblici. Si può ancora fare oggi che la metà dei titoli circola sui mercati esteri? Per l’ex governatore “quel che conta è sempre la credibilità di chi gestisce la politica monetaria e di bilancio. Non più regole, ma una migliore regolazione”.
La componente discrezionale, politica nel senso più ampio della parola, gioca un ruolo importante nel momento in cui si parla di regolare la quantità e la velocità di circolazione della moneta, quindi di metterla in relazione con il canale del credito che alimenta la produzione. Fazio racconta che nel 1994, quando bisognava gestire la crisi del Messico (prima di una lunga serie che arriva fino ad oggi attraverso Russia, Thailandia, Brasile, Argentina), durante il G7 di Toronto si cominciò a discutere se e come controllare la quantità della moneta e la qualità del credito. La Banca d’Italia era per seguire entrambe le strade, appoggiata dalla Bundesbank. La Banca d’Inghilterra si oppose. “Cominciamo con il credito”, disse l’allora governatore Eddie George. E vennero gettate le basi per l’accordo sui requisiti di capitale noto come Basilea II. Oggi molti pensano che vada rifatto. Per Fazio deve essere adeguato, senza gettarlo alle ortiche. E la moneta?
Dopo il 1971, quando venne abbandonato il cambio fisso tra dollaro e oro, si è consentito di creare liquidità in modo pressoché illimitato.
A Bretton Woods si confrontavano due tesi, quella britannica di Keynes per la creazione di una banca centrale mondiale e quella americana del piano White per il Fondo Monetario Internazionale. Entrambe erano centrate sul controllo della quantità di moneta. Prevalse il Piano White il Fmi il dollaro come valuta riserva convertibile in oro e dunque garante di ultima istanza di ogni transazione mondiale. Quando il 14 agosto del 1971 Nixon dichiara la incovrertibilità del dollaro, e crolla il sistema di Bterron woods si entra inell’era dei cambi flessibili ed in una fase di grande instabilità. Il sistema monetario internazionale perde il controllo della liquidità internazionale che cresce abbondantemente senza alcun limite, aumenta la velocità di circolazione della moneta, il oprimo effetto è l’inflazione. Il mondo si accorge improvvisamente di avere abbastanza soldi per acquistare il petrolio a prezzi più alti, i paesi Opec lo capiscono ed quadruplicano il prezzo del petrolio. E’ la crisi energetica il primo shoc petrolifero. L’abbondanza di liquidità senza controllo spinge gli equilibri al di là della opriodenza ed il sistema finanzia tutto anche ciò che non merita. Si abbassa la qualità del credito, nascono le bolle speculative e dopo l’esplosione le bolle: quella immobiliare degli anni ottanta, quella tecnologica e delle borse nel 2000, quella dei subprime nel 2008

Il circuito può essere spiegato così. Il sistema americano comincia a far credito con grande liberalità per molte ragioni, anche di politica interna o internazionale. Non riesce a finanziarlo, quindi vende obbligazioni alle società di assicurazioni le quali hanno un’ampia liquidità, ma non oltre un certo limite, raggiunto il quale esse emettono obbligazioni sui mercati internazionali. Alcune banche che operano in titoli e hanno avuto la possibilità di abbassare i loro coefficienti di capitale dall’8 al 2 per cento, si riempiono di bond. Quando sono troppo piene li impacchettano e li collocano sul mercato, creando titoli derivati i quali aumentano la velocità di circolazione della moneta fino al punto di rottura che avviene allorché qualcuno, anche nel luogo più periferico del sistema, non è più in grado di alimentare questo meccanismo. Come è accaduto con i subprime quando i prezzi degli immobili sono cominciati a cadere. L’abbondanza di liquidità spinge gli equilibri al di là della prudenza e finanza tutto, anche ciò che non meriterebbe. I derivati non sono la causa della crisi finanziaria, semmai l’hanno accelerata. Sono strumenti utili, ma vanno maneggiati con cura. “Si possono usare per ridurre il rischio o per fare una scommessa. L’assicurazione sulla mia vita è una riduzione di rischio, se la stipulo sulla vita di un altro, faccio una pura e semplice scommessa”.
Il ciclo finanziario è intrinsecamente instabile, anche su questo Fazio la pensa come Keynes. E il mercato non riesce a trovare da solo un equilibrio. O meglio, è sottoposto a continue scosse telluriche. E l’equilibrio viene raggiunto a prezzo di grandi rovine. Qui viene di nuovo in aiuto la teoria. “La moneta come segno, la moneta fiduciaria, non il puro mezzo di scambio, non ha di per sé un valore intrinseco e dunque un prezzo di equilibrio. Esiste la quantità di moneta ma per trovare un punto di equilibrio occorre che la quantità di moneta sia fissata da qualcuno, esogenamente, per esempio dalle banche centrali. Se ciò non accade, poichè la moneta crea credito ed il credito crea moneta, all’infinito, il sistema è soggetto a inflazione, questa abbassa la qualità del credito e si generano le crisi con una sequenza di inflazione-deflazione. Per questo motivo occorre controllare la quantità di moneta, governarla a livello mondiale, un’àncora alle economie nel mare della liquidità.
Prenda Leon Walras, il maggior teorico dell’equilibrio generale, alla fine, nel suo modello il valore intrinseco è l’oro. Anche per questo ho sempre rifiutato di vendere le nostre riserve. Come ricordava sempre Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, alla fine l’oro resta l’ancora di salvezza”.
Se l’instabilità è inscritta nel meccanismo di mercato, ecco che occorre un soggetto esterno. Per Fazio, è la banca centrale. E quando anch’essa sbaglia? La crisi odierna non è a sua volta figlia degli errori nella politica monetaria? Prendiamo Alan Greenspan. Non ha insistito troppo nel tenere i tassi di interesse vicino a zero? Fazio non biasima l’ex presidente della Fed per il quale nutre grande stima e amicizia. Ricorda un altro vertice a Montreal nel 2000 in cui per affrontare l’incipiente crisi high tech e poi l’11 settembre. La politica monetaria riuscì ad affrontare lo shock politico che si combinava con l’esaurirsi del ciclo precedente. E a riavviare la ripresa. La moneta conta, in questo Fazio ha assorbito la lezione di Friedman. E si è cpmportato da monetarista nel 1997 quando rivalutò la lira, prima di cominciare l’accidentato percorso verso l’euro. Ma è sempre difficile stabilire il momento giusto per tirare le redini, mentre, in fondo, è più chiaro quando bisogna far piovere bigliettoni.
Parlando di sbagli e abbagli, l’errore capitale del 2008 è stato far fallire una grande banca. “Si fanno fallire i banchieri, non le banche. Senza il fallimento di Lehman, la crisi ci sarebbe costata molto, molto meno”. E l’azzardo morale? E il meccanismo perverso di diventare troppo grandi per fallire? “Lei sa che io non ho mai pensato che le banche dovessero essere troppo grandi – risponde Fazio – E credo che il banchiere si giudica sulla sua capacità di far credito. Un mestiere difficile perché bisogna saper valutare il merito di credito. Oggi si parla di stretta, in realtà c’è poca domanda qualificata di prestiti, la richiesta serve soprattutto per ricostituire le scorte. Bisogna aspettare che ripartano davvero gli investimenti”. E la banca centrale che ruolo ha? “Quello di prestatore di ultima istanza, come diceva Walter Bagehot nel 1873. Lo stesso ruolo che eserciterà la Bce in Europa, ora che si manifesta il pericolo di una crisi del debito a partire dai paesi più fragili come la Grecia”. Senza la moneta unica la crisi greca sarebbe stata puramente locale, tuttavia l’euro rappresenta un salvagente proprio perché chiama in campo una istituzione sovranazionale, regolatrice e stabilizzatrice, come la banca centrale. La sua funzione non è solo tecnica, ma psicologica: è ridare fiducia. E l’iniezione più grande di fiducia, sarebbe proprio la capacità di fare politica monetaria su scala globale. E’ possibile, insiste Fazio. Tornando ai fondamentali. Tornando alla lezione di Samuelson.

Fonte: Il Foglio del 17 dicembre 2009

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