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La doppia sfida di Draghi

Dopo Marchionne, Draghi. Con ben altro stile e complessità di approccio rispetto all’amministratore delegato della Fiat, il governatore della Banca d’Italia ha ieri ribadito, cifre alla mano, quanto sia grave il deficit di competitività e produttività di cui soffre l’economia italiana. Una valutazione convincente, la sua, anche perché nel mazzo delle cause di questa situazione Draghi non ha mancato di mettere anche le aziende, oltre che i lavoratori già tirati per le orecchie da Marchionne, e più in generale il difetto di social capability del Paese, cioè quell’insieme sistemico determinato dal quadro politico e giuridico, dal sistema di valori condiviso, dalla mobilità sociale, dal livello d’istruzione, dalla disponibilità di infrastrutture.
Il quadro che emerge dai dati è inconfutabile. In uno scenario in cui l’intera Eurolandia sta perdendo peso nello scenario globale – secondo le stime del Fondo Monetario, tra il 2000 e il 2015 la sua quota di pil mondiale scenderà dal 18% al 13% mentre nello stesso periodo quella dell’Asia raddoppierà, dal 15% al 29% – l’Italia non solo ha pagato carissima la recessione (quasi 7 punti di pil) ma ha accumulato una pesante perdita di competitività rispetto non ai paesi emergenti – cosa inevitabile – ma ai principali partner europei. Da cosa si evince? Primo: tra il 1998 e il 2008 (i dieci anni dell’euro) il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24% in Italia, del 15% in Francia, mentre è addirittura diminuito in Germania. Secondo: nello stesso decennio la produttività è aumentata del 22% in Germania, del 18% in Francia, ma solo del 3% in Italia. Terzo: la crescita del prodotto per abitante in Italia si è azzerata, perché siamo passati dal +3,4% annuo degli anni Settanta, al +2,5% degli anni Ottanta, al +1,4% degli anni Novanta, fino alla stasi dell’ultimo decennio.
Dato questo quadro, cosa possiamo fare? Il governatore di Bankitalia lo ha detto e ripetuto più volte: le riforme strutturali. Ieri ne ha palato partendo, in omaggio all’economista Giorgio Fuà di cui si celebrava il ricordo nella sua Ancona, rievocando la vecchia definizione di “modello di sviluppo tardivo” dell’Italia. Il che significava e continua in buona misura a significare marcati e persistenti difetti nella dimensione e nella tipologia delle imprese, da un lato, e nel mercato del lavoro, dall’altro. Nel primo caso ne derivava un dualismo tra imprese “moderne” e “pre-moderne”, con ampie differenze di produttività, capacità di innovazione (più di prodotto che di processo). Draghi dice giustamente che quella vecchia distinzione rimane, specie sul terreno delle dimensioni, e che la conseguenza è la crescente difficoltà per le imprese più piccole (il 95% del totale) di sfruttare le economie di scala e competere con successo nel mercato globale.
Sul fronte del lavoro, invece, Draghi sostiene che il dualismo si è addirittura accentuato rispetto al passato. Da un lato rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata in circa il 12% del totale delle unità di lavoro – ma francamente è un dato che sta nella media Ue – mentre dall’altro la diffusione dei contratti a termine, se ha portato ad aumentare l’occupazione negli anni pre-crisi più che nell’area euro, ha anche incrementato la precarietà. E Draghi dice senza mezzi termini – qui credo distante anni luce dalla “ricetta Marchionne” – che “senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano,con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Rimane però da spiegare in che modo si può ottenere un risultato simile, senza pesare sulle imprese in una fase in cui sarebbe invece necessario incoraggiarle ad investire. Forse si potrebbe dire che andrebbe smontato un doppio “doppio eccesso”. Il primo “doppio eccesso” è quello dato dal trattamento opposto di cui godono i precari veri (fonti sindacali dicono siano 2,5 milioni, fonti imprenditoriali parlano di mezzo milione) e i lavoratori a tempo indeterminato: troppo poco (diritti, salario) agli uni, troppo (rigidità varie) agli altri. Il secondo “doppio eccesso” è quello che divide i lavoratori del privato da quelli del pubblico, a favore di questi ultimi. Trovare un giusto equilibrio sarebbe l’ideale. Ma questo riguarda sì la dialettica tra le parti sociali – che dovrebbe farsi più intraprendente – ma anche gli interventi riformatori da parte del governo. Cui Draghi chiede di rimuovere anche le altre cause, più tipicamente del sistema-paese, che rendono poco competitiva l’Italia, a cominciare dalla liberalizzazione del sistema dei servizi (sacrosanto: ricordiamoci che il manifatturiero pesa solo per il 30% nella formazione del pil). Ma qui si apre il difficile discorso sulla capacità del sistema politico – non solo di questo governo – di riuscire a fare ciò che non si è fatto nell’intero arco di esistenza della Seconda Repubblica.

Fonte: Il Messaggero del 6 novembre 2010

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