Grazie all’iniziativa scientifica di Ocse e Banca d’Italia il tema della disuguaglianza rientra nel dibattito di politica economica. Nel giro di soli due giorni sono state presentate, infatti, due indagini che arrivano alla stessa conclusione: la distanza tra i redditi più elevati e quelli in basso è aumentata. Scegliendo un numero su tutti, vale la pena ricordare che l’1% più ricco degli italiani nel 1980 guadagnava il 7% del totale mentre nel 2008 la sua quota è passata al 10%.
È chiaro che la differenza di reddito è la disuguaglianza politicamente più sensibile ed è di conseguenza anche quella sulla quale si appuntano le maggiori attenzioni (e polemiche). Un esempio: da parte sindacale molte volte si è sottolineata la dinamica sostenuta degli emolumenti di un personaggio chiave come Sergio Marchionne messa a confronto con la staticità dei salari degli operai Fiat. L’indice statistico di Gini che misura per l’appunto questo tipo di distanza ha conosciuto così una notorietà che prima non si era mai sognata. I sociologi obiettano che una vera mappa delle disuguaglianze non si può basare sul solo indice di Gini – che ne registra una – ma dovrebbe indagare tre o quattro tipologie di privazione e quindi mettere sotto osservazione almeno altri tre tipi di disuguaglianza, quella di genere (le donne), quella generazionale (i giovani) e quella etnica (gli immigrati).
Ma torniamo alle distanze di reddito. La posizione degli economisti neoclassici secondo la quale quel tipo di disuguaglianze, pur entro certi limiti, «fa bene» alla crescita oggi nel pendolo delle opinioni è diventata sicuramente minoritaria. La Grande Crisi da un lato e le stock option miliardarie incassate dai banchieri fatcats (gatti grassi) hanno contribuito a mettere sotto scacco le tesi liberiste e a rilanciare una sorta di keynesismo degli stipendi. Che suona pressappoco così: i lavoratori sarebbero portati a spendere ma non avendo soldi a sufficienza lo fanno sempre meno. Ergo la domanda di beni ristagna e, arrivati a un punto critico, la recessione finisce per bloccare lo stesso sistema capitalistico. Tutto ciò appare ancor più verosimile in Italia dove si registra una crescente divaricazione tra un gruppo ristretto di aziende che vanno bene grazie ai proventi dell’export e una massa di imprese che lavorano solo sul mercato interno e di conseguenza soffrono.
A motivare l’inclusione del tema «disuguaglianze» nell’agenda pubblica dell’anno di grazia 2012 c’è anche un altro tipo di considerazione che attinge ai dettami di quella che viene chiamata economia comportamentale. Semplificando al massimo l’individuo è portato più che a consultare le statistiche a cercare elementi di comparazione con il suo vicino. Se si accorge di guadagnare troppo poco in rapporto al proprio datore di lavoro il nostro signor Rossi tende a sviluppare sentimenti di depressione e di conseguenza a incubare elementi di conflittualità sociale. Se questo ragionamento lo svolgiamo non in astratto ma lo collochiamo in una fase X, come quella che stiamo vivendo in questi mesi e nella quale il governo vara politiche di austerità, le disuguaglianze di reddito rischiano di diventare particolarmente odiose e finiscono per produrre una sorta di invidia sociale al ribasso. E soprattutto una mancata corresponsabilizzazione sociale nelle politiche nazionali di risanamento. In parole povere se vengo a sapere che un banchiere continua a straguadagnare mi ribello nei confronti della riforma previdenziale, dell’aumento della pressione fiscale e persino delle liberalizzazioni. Sommando quindi gli argomenti dei keynesiani (domanda stagnante) e quelli dei comportamentalisti (il risentimento sociale) si arriva alla conclusione che la politica economica è interessata ad affrontare il tema delle disuguaglianze, pena l’insuccesso della sua azione.
Il ventaglio delle policy per produrre equità è larghissimo, va dalla contrattazione e dal welfare aziendale fino al rilancio dell’istruzione, strumento principe per evitare che le distanze si trasmettano all’infinito tra padre e figlio. Si tratta chiaramente di iniziative che producono risultati misurabili solo nel tempo ma già l’effetto-annuncio gioca un ruolo positivo nel combattere quel senso di vulnerabilità sociale così largamente diffuso. Non è detto poi che tutti, proprio tutti i risultati, abbiano l’effetto di diminuire la percezione della disuguaglianza. Poniamo ad esempio di trovarci di fronte alla creazione, per effetto di nuove politiche del lavoro, di un numero considerevole di macjobs , di posti – almeno inizialmente – a basso reddito. L’occupazione aumenterebbe ma l’indice di Gini farebbe registrare forse un allargamento della forbice dei redditi.
La diseguaglianza entra nell’agenda politica
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