DAVVERO i mercati avevano creduto alla favola bavarese di Stoiber? Ieri la conferma del governo rosso-verde ha tramortito la Borsa di Francoforte, crollata del 5% trascinando nel lunedì nero post-elettorale tutte le Borse europee. Che Stoiber avesse la bacchetta magica non poteva pensarlo nessuno, tanto più che il presunto miracolo economico della Baviera è finito da un pezzo e la disoccupazione sale a vista d’occhio anche nella terra della Bmw.
I mercati hanno solo riaperto gli occhi di fronte a una realtà tedesca ed europea disperante. Da oltre dieci anni non esiste più una Germania-locomotiva, ne vivono la triste conferma i suoi 4,1 milioni di senza lavoro. Con un sistema tedesco paralizzato dalle rigidità e dagli alti costi – problemi antichi che esistevano anche sotto il democristiano Kohl, non li ha creati Schroeder – tutta l’Europa è condannata ad un non-ruolo nella crisi economica mondiale. La divisione tra gli europei sull’Iraq conferma nei mercati la percezione della loro irrilevanza.
Dal Vecchio continente nessuno si attende uno scatto, un’iniziativa concertata per il rilancio della crescita mondiale. Così come attendono in ordine sparso l’offensiva americana in Iraq, ciascuno con sfumature diverse ad uso dell’opinione pubblica interna, allo stesso modo gli europei aspettano dall’economia americana i segnali sul futuro che verrà. Prostrati dal ristagno della crescita, finora potevano giustificare l’inazione con l’attesa del voto tedesco. Passato quello, tutto resterà come prima. Se l’America rimane il centro, ieri i segnali che ha mandato al resto del mondo sono stati tutti negativi. Anche a Wall Street gli indici hanno continuato a franare, con il Nasdaq ai minimi degli ultimi sei anni: ormai tutta la bolla della New Economy si è sgonfiata, eppure i profitti delle imprese sono così depressi che anche a questi livelli le azioni sono care e c’è spazio per scendere più giù. Ieri l’ennesima caduta delle Borse Usa ha trovato come pretesto il calo inatteso del Superindice che riunisce una serie di dati significativi sul futuro dell’economia americana (dal mercato del lavoro alla fiducia dei consumatori). Con un calo dello 0,2% il Superindice lascia prevedere che la ripresa Usa continuerà ad essere asfittica, tentennante e incerta almeno fino all’inizio del 2003.
Non c’è prova che vi sarà una ricaduta nella recessione. Ma anche nello scenario più probabile di una crescita debole, simile alla “jobless recovery” del 1991-92 (dopo la prima Guerra del Golfo), il clima rimarrà pessimo perché nella seconda metà degli anni Novanta il paese si era abituato a ritmi di crescita molto sostenuti. Poiché la produttività non cessa di migliorare grazie alle nuove tecnologie, senza una crescita forte le imprese continueranno a licenziare. Se ai licenziamenti si aggiungerà il temuto scoppio della bolla immobiliare, gli effetti saranno micidiali sui consumi delle famiglie che finora hanno sorretto l’economia americana.
Oggi si riunisce la Federal Reserve e i più si aspettano che la banca centrale rinvii un taglio dei tassi a fine anno. Ma anche se agisse subito, quali effetti taumaturgici potrebbe avere dopo 11 tagli consecutivi che hanno portato il costo del denaro al minimo storico degli ultimi 41 anni? Tutto ciò che Alan Greenspan poteva fare per rimpinguare i portafogli degli americani, con mutui casa a condizioni di favore e auto a rate a tasso zero, lo ha già fatto. Se la politica monetaria perde ogni margine di manovra, si avvicina lo spettro di una sindrome giapponese, quella trappola della liquidità in cui il pessimismo convince a tenere i risparmi sotto il materasso.
Più che alla Fed i mercati guardano al Golfo, con i prezzi del petrolio schizzati oltre i 30 dollari: il record da 19 mesi, e un rincaro del +54% dall’inizio dell’anno. Anche su questo fronte il futuro è nelle mani di Washington e il resto del mondo non ha molto da dire. Perfino Wall Street è incerta sulle conseguenze economiche della guerra, stenta a misurare quali cambiamenti strutturali avverranno nei prossimi anni per effetto delle nuove dottrine strategiche della Casa Bianca. Per chi si occupa di denari la memoria storica dice che il grafico Nasdaq negli ultimi anni rivela somiglianze impressionanti con quello del Dow Jones dopo il 1929. Il punto dove ci troviamo oggi corrisponde all’inizio del 1932. Di lì mancava ancora molto, prima che i mercati toccassero il fondo nella grande crisi degli anni Trenta.
Fonte: La Repubblica del 24 settembre 2002