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La crescita che non basta

L’Europa chiede riforme, “sennò falliremo”. E una classifica spiega come produrre in Italia sia veramente un handicap… Olli Rehn avverte che all’Europa la ripresina non basta. «Il tasso di crescita stimato all’1,5% nel prossimo decennio è semplicemente inadeguato a creare i posti di lavoro che ci servono», calcola il commissario Ue all’Economia. Allo stesso modo, «non è sufficiente per reagire alle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione». Questo vuol dire, paventa il finlandese, «che non ce la faremo se non sapremo accelerare le riforme, negli stati membri come in tutta l’Unione». Tuttavia, aggiunge pensando al vertice che si apre domani e alla riforma del Patto di Stabilità, «sarebbe preferibile non arrivare alla modifica dei Trattati».
E’ la storia di sempre, solo che ora suona più grave. Lo si legge nella parole con cui il presidente stabile dell’Ue, Herman Van Rompuy, invita i capi di stato e di governo al Consiglio Europeo di Bruxelles. A loro chiede di far adottare «il più presto possibile» le nuove regole per governare l’economia europea. Più coordinamento e più sanzioni sono l’obiettivo, ma la Germania vuole riaprire i Trattati per inserirvi le nuove regole, cosa che la maggior parte dei paesi non è disposta a fare. Al summit sarà lo scontro oppure si cercherà la pace in un compromesso acquoso per mettere tutti d’accordo e rinviare il dossier. Non a caso, van Rompuy ha auspicato «una decisione entro l’estate 2011».
A sottolineare l’esigenza del cambiamento è proprio il rapporto «Euro Monitor 2010» presentato ieri da Lisbon Council e Allianz alla presenza di Rehn. Il tabellone elaborato dalla think tank bruxellese non riscontra eccellenza economica in alcun paese dell’Unione, nemmeno nella Germania o nell’Austria che fanno da locomotiva. «Troppe prestazioni mediocri», si legge nel documento. A parte la Grecia, sono Portogallo e Spagna i paesi più a rischio. L’Italia non va tanto meglio, «è lontana dai migliori», sebbene «non sia calcolata nel gruppo dei più vulnerabili». Ma il problema sui cui i riflettori restano accessi è la scarsa concorrenzialità del nostro sistema.
Il Lisbon Council dice che a Roma non ci siamo con i conti, che il deficit è alto e il debito altissimo. Si sapeva. Conforterà il fatto che lo studio coniuga la pericolosità del debito privato e di quello pubblico, il Tesoro lo ripete da mesi per opporsi al fondamentalismo a senso unico (solo pubblico) del rigore tedesco. E piacere farà anche l’affermazione che le prospettive del nostro sistema pensionistico ribilanciato sono migliori rispetto a gran parte dei partner. Rehn rileva che, «assieme alla Svezia, l’Italia è un esempio». Sono le uniche note positive dell’analisi. Difendono la sostenibilità del debito senza aggiungerne a quella dell’economia reale che langue.
Scarsa appare la competitività complessiva. Il costo unitario del lavoro in Italia è cresciuto di circa il 15% dal 2000, periodo in cui quello tedesco è diminuito. «It’s Rocketing», sentenzia il Lisbon Council per definire la dinamica: «Va come un razzo». In dieci anni è diminuita la quota italiana del commercio mondiale, il che ci accumuna alla Francia. Volano al contrario le economie dell’Est, come la tedesca (e austriaca).
Se non bastasse è calata pure la produttività del lavoro pro capite. Meno 3% nello stivale dal 2004 a oggi. «L’ostinazione di questa tendenza colpisce in modo particolare», scrive il Lisbon Council: risultiamo quindicesimi su sedici, l’ultimo è il Lussemburgo che vive non ha in sostanza il manifatturiero. Nella stesso rapporto, il 2005 diceva che l’Italia era quarta in Europa per «lavoro, produttività ed efficienza delle risorse». Oggi siamo ottavi a pari merito col Belgio. Sapere che lo scorso anno occupavamo la piazza “numero undici” è una soddisfazione relativa. E parecchio magra.

Fonte: La Stampa del 27 ottobre 2010

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