Stranamente il calo dello spread coincide con l’aumento dell’incertezza politica in Italia. La fine della legislatura e del governo Monti, l’incognita del movimento di Grillo, i dubbi sul ritorno di Berlusconi, la sconfitta dell’ala più riformista della sinistra rappresentano per gli investitori, al di là dei giudizi di valore di ognuno di noi, segnali di incertezza sul futuro del Paese. Eppure lo spread cala.
Ci sono motivi esterni molto importanti che determinano lo spread, ma anche ragioni interne ed europee, che aiutano a comprendere meglio la sfida politica italiana del 2013.
Molte di queste ragioni sono legate ai limiti imposti dal fiscal compact. Potrà venire infatti un governo più incline alla spesa o più favorevole a tagliare le tasse, ma il deficit strutturale dovrà restare entro lo 0,5% del Pil. Se il pareggio del bilancio e quello dei conti con l’estero sono sostenibili, gli investitori esteri possono considerare il Paese stabile chiunque lo guidi. Anche se vincesse una coalizione politica tutt’altro che moderata, il governo sarà tenuto da un trattato internazionale a ridurre deficit e debito. Se non lo fa, il trattato prevede che «nel caso di deviazioni significative osservate dall’obiettivo di medio termine» meccanismi di sanzione scattino automaticamente con l’imposizione di penalità finanziarie.
Qualunque sia il prossimo governo, non potrà nemmeno discutere unilateralmente una deviazione dal fiscal compact, perché farebbe fuggire gli investitori dal Paese. Inoltre il fiscal compact è stato introdotto come contropartita dei fondi salva-Stati a garanzia dei Paesi creditori. Il testo del Trattato dice chiaramente che gli aiuti finanziari saranno condizionati alla ratifica del fiscal compact entro il 1° marzo 2013, nove giorni prima della data più probabile delle elezioni italiane. Quindi se il fiscal compact fosse abbandonato dall’Italia, l’Esm (il fondo salva-Stati) perderebbe senso, probabilmente verrebbe addirittura svuotato. Sarebbe la fine dell’euro. I partiti italiani più radicali, che criticano sia il rigore fiscale sia l’euro, hanno quindi una tragica coerenza. Ma sono costretti a proporre un’uscita dalla moneta unica che li confina in una posizione scomoda e irrealistica di fronte agli elettori italiani.
La legge di bilancio del prossimo governo inoltre dovrà essere sottoposta ai Paesi partner prima ancora di essere votata dal Parlamento italiano. Sarà sottoposta a sorveglianza della Commissione in relazione al rispetto degli obiettivi di medio termine e al calendario della convergenza non solo fiscale, ma macroeconomica. Il nuovo governo potrà comunque intervenire sulla qualità e l’articolazione della politica economica, ma paradossalmente più nella natura tecnica delle riforme che nel loro impianto ideologico. Tutte le maggiori riforme politiche, infatti, devono essere discusse con gli altri governi prima ancora di essere approvate. Se possibile devono essere coordinate tra i diversi Paesi. Questo significa che ogni riforma ispirata da uno spirito particolarmente ideologico deve incontrare il sostegno dei Paesi partner. I quali però hanno orientamenti politici diversi tra di loro e quindi difficilmente daranno luce verde a un’agenda molto radicale di uno dei Paesi membri.
Infine, per non violare gli obiettivi annuali, un piano di riforma economica radicale, per esempio il taglio secco delle tasse o l’aumento della spesa, dovrebbe essere spalmato su diversi anni. Al limite su più di una legislatura. Ma questa lunga durata crea un problema di credibilità per qualsiasi politica ideologizzata, perché la riforma rischierebbe di essere revocata al primo cambio di maggioranza o perdita di consenso del governo. Per questa ragione in Europa c’è una certa tendenza a preferire “grandi coalizioni” nei Paesi indebitati in cui sono necessari ampi piani di riforma.
In caso di un governo recalcitrante, la Commissione farebbe scattare un “programma di partnership” che in realtà mette sotto stretta sorveglianza la politica del Paese e richiede un piano dettagliato di riforme strutturali. Ma non erano molte di queste forme di sorveglianza già in vigore in passato e senza efficacia? Sì, ma ora i mercati sono molto più allerta. I Paesi partner poi hanno un’arma nucleare in mano: qualsiasi Paese aderente al Trattato può portare un altro Paese, che sospetta di violare gli accordi, di fronte alla Corte di Giustizia Ue. Dato il livello di populismo in Europa in materia di rigore fiscale altrui, non è improbabile che questo clamoroso processo pubblico al Paese deviante avvenga davvero. In fondo è stata sufficiente un po’ di pressione, informale ma pubblica, di Berlino nelle scorse settimane per far finire la Francia tra i Paesi fragili.
Il prossimo governo avrà dunque un forte controllo dall’esterno, nessun margine fiscale e nessuna possibilità di far leva su ideologie radicali. Privo di risorse fiscali, con la politica monetaria gestita solo a livello europeo e con le riforme strutturali che richiedono tempo per dare effetti, il prossimo governo potrà puntare soprattutto su un clima più cooperativo in Europa che consenta di realizzare politiche di sviluppo, di spostare l’attività economica italiana sui settori esportatori e di uscire dalla spirale debito-deflazione che sta contagiando anche i Paesi più solidi.
uttavia per influenzare la politica economica europea un governo deve essere credibile a Bruxelles. E per essere credibile a Bruxelles deve condurre politiche credibili a casa. Se per esempio Hollande avesse oggi un pareggio di bilancio, sarebbe politicamente più forte di una Merkel a termine di legislatura. Alla fine dunque un governo post-Monti dovrebbe comportarsi più o meno allo stesso modo del governo attuale. La campagna elettorale sarà condotta polemicamente pro o contro l’agenda Monti, ma in realtà qualsiasi sarà il prossimo governo rischia di avere ancor meno margine di manovra di quello attuale, dovendo costruire da zero la propria credibilità europea.
La credibilita’ e’ lo “scudo” su Btp
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