La corruzione riduce gli investimenti privati, rende la spesa pubblica inefficiente, scoraggia l’accumulazione del capitale umano e peggiora la qualità delle istituzioni. E’ quindi un vero freno per il progresso economico. Questa citazione non viene da un saggio di sociologia economica progressista ma (felice sorpresa) è l’incipit del rapporto La corruzione zavorra per lo sviluppo contenuto nel numero dello scorso dicembre di Scenari economici del Centro Studi Confindustria.
Il rapporto rappresenta una interessante e coraggiosa novità, e merita maggiore attenzione di quanta finora abbia ricevuto da parte di imprese, politici giornalisti.
Sull’onda dell’indignazione per lo scandalo di Roma capitale, peraltro seguita a simili e anche più gravi scandali legati a grandi iniziative come il Mose e l’Expo, a fine dicembre il governo ha varato un ddl anticorruzione che ora il parlamento sta emendando e approvando su materie decisive come inasprimento delle sanzioni, falso in bilancio, autoriciclaggio, concussione o induzione indebita a dare o promettere utilità, allungamento dei tempi di prescrizione per alcuni reati più gravi, regole per il patteggiamento. Il presidente dell’ANM Rocco Sabelli si è augurato che non ci si limiti a pochi, modesti ritocchi, inseriti in fretta in qualche ampia proposta di legge, destinata a lunghi percorsi parlamentari e magari a impantanarsi, una volta scemata l’indignazione del momento e archiviato il ricordo dell’ultimo scandalo.
Segnalo alcuni elementi importanti contenuti nel rapporto del CSC.
Primo, secondo i dati dell’Eurobarometro 2014, il 97 per cento dei cittadini italiani ritiene che la corruzione sia un fenomeno diffuso nel proprio paese (contro il 68 per cento dei cittadini francesi e il 59 per cento di quelli tedeschi). Inoltre l’88 per cento dei cittadini in Italia (contro 75 per cento in Francia e 49 per cento in Germania) è convinta che la corruzione riduca la concorrenza nel sistema economico. Ancor più preoccupante è la percezione negativa o molto negativa della corruzione in Italia da parte dei managers stranieri che hanno avuto qualche esperienza nel nostro paese.
Secondo, esiste una buona evidenza statistica, sulla base di dati 1990-2011 della Banca Mondiale su più di 130 paesi, che più elevati indici di corruzione danneggiano la crescita. L’aumento di una deviazione standard nell’indice Control of corruption (World Bank Policy Research WP n. 5430, 2010) si associa a un calo dello 0,8 per cento nella crescita media annua del PIL per abitante, dopo aver tenuto conto di diverse caratteristiche dei paesi (livello iniziale dello stesso PIL per abitante, crescita demografica, stock di capitale fisico e di capitale umano). Il CSC calcola che, se l’Italia riducesse la corruzione anche solo al livello della Spagna (che presenta un indice inferiore di 0,7 punti di deviazione standard rispetto a noi), la nostra crescita aumenterebbe di quasi lo 0,6 per cento. Ovviamente ci sono direzioni di causalità bilaterali tra questi due fenomeni, ma il risultato è eloquente. Anche più interessanti sono i dati dell’indagine annuale Doing business della Banca Mondiale: in contrasto con la credenza che la corruzione serve a oliare gli ingranaggi della burocrazia, i paesi con maggiori indici di corruzione sono anche quelli dove i tempi della burocrazia e delle pratiche amministrative si allungano sensibilmente.
Terzo, una abbondante letteratura indica vari motivi per cui la corruzione frena la crescita: a) minori investimenti privati (in particolare delle imprese multinazionali) e pubblici; b) aumento dei costi e ridotta qualità delle infrastrutture, che riducono l’efficienza della spesa pubblica; c) grave ostacolo alla meritocrazia, da cui incentivo a minori investimenti in capitale umano e fuga dei cervelli; d) minori costi del non rispetto delle regole sociali, che si traduce in peggiore qualità della governance delle istituzioni pubbliche e private.
Quarto, poiché non basta sanzionare (assegnando alla magistratura il ruolo di supplenza) ma occorre sempre più prevenire, il vice presidente di Confindustria Carlo Pesenti lancia un appello per un patto sociale per la legalità che produca veri propri rating di legalità assegnati alle imprese con il coinvolgimento attivo delle associazioni imprenditoriali, sulla scia della coraggiosa iniziativa di qualche anno fa di Ivan Lo Bello presidente di Confindustria Sicilia (espulsione associativa delle imprese che accettano di pagare il pizzo). Tale patto deve far leva su elementi reputazionali come la riprovazione sociale, cruciale ingrediente del capitale sociale nell’accezione di una ormai diffusa letteratura economica (tra gli altri: R.Solow, R.D.Putnam, D.North e in Italia L.Guiso, P.Sapienza, P.Sestito, C.Trigilia). Tale coscienza civica reputazionale riflette la convinzione diffusa che combattere corruzione e illegalità promuove il benessere di tutti.
Infine, tra i meccanismi di prevenzione occorre gradualmente abbattere gli ostacoli del disordine normativo (incertezza, formalismo), nonché garantire una reale tutela dei dipendenti che segnalano comportamenti illeciti (whistleblowing), argomento toccato anche nel primo rapporto OECD Foreign Bribery Report, 2014 scritto in collaborazione col Working Group Anti-Corruption del G-20.
E’ purtroppo ancora attuale e terribile la citazione di Tacito (Annales 113) riportata a Premessa del rapporto del CSC: Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto.
fabrizio.onida@unibocconi.it
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Fonte: Il Sole 24 Ore - 4 Marzo 2015