• lunedì , 30 Dicembre 2024

La Cina è un gigante con cui l’America deve continuare a dialogare

di Fabrizio Onida

Dopo l’incontro fra Biden e Xi Jinping a Bali lo scorso novembre, incontro che potremmo definire storico nella attuale fase geopolitica segnata dalle grandi incertezze sugli esiti della guerra Russia -Ukraina e sull’ambigua posizione della Cina, si sono scatenate diverse iniziative e pressioni diplomatiche tra Usa e Cina, dagli incontri del ministro del commercio estero cinese Wang Wentao con Jake Sullivan (Us National Security Advisor) e con la Ustr Katherine Tai , fino a includere la recente missione clandestina a Pechino del direttore della CIA Bill Burns. L’esito di questi contatti, in vista del prossimo summit dei 21 paesi dell’Apec (Asian Pacific Economic Cooperation, un organismo senza personalità giuridica) in programma il prossimo 21 novembre a San Francisco, dipenderà molto da quanto la vecchia Europa e contemporaneamente i paesi asiatici alleati (dal Giappone ai 10 membri dell’Asean, più Australia e Nuova Zelanda) riusciranno a fare per convincere l’amministrazione americana di Biden a puntare non su una rischiosa frattura (decoupling) nei rapporti economici e commerciali fra i due paesi, ma su una sofisticata strategia di contenimento della Cina tramite riduzione del rischio militare e tecnologico (de-risking). Vedremo anche quanto peserà la nomina del nuovo ambasciatore Usa a Pechino.

Il ministro Wang vorrebbe capire come Biden intende gestire l’Ipef (Indo-Pacific-Economic Framework for Prosperity), una vaga proposta di accordo lanciata da Biden nel maggio 2022 a una dozzina dei tradizionali partners asiatici, che estende il dialogo a molti temi come il commercio digitale, l’ambiente e la corruzione, ma taglia fuori la Cina dai progetti di energia pulita e di resilienza delle catene internazionali di fornitura. Tuttavia, prima ancora urgono le tensioni legate al forte rallentamento degli scambi bilaterali Usa-Cina.

Agli inizi di maggio a Vienna Wang ha rilanciato il dialogo, congelato dalla scorsa primavera, avente come tema centrale le restrizioni americane alla vendita di tecnologie di punta alla Cina. Dall’estate 2022 il governo Usa frena l’export alla Cina di chips avanzati (serie H100 e A100) e di componenti per giochi, grafici e piattaforme di IA prodotti dalla statunitense Nvidia. Ciò ha indotto Pechino a moltiplicare gli investimenti domestici per sostituire questi prodotti precedentemente importati dagli Usa. Toccato sul vivo, il CEO di Nvidia Jensen Huang non ha mancato di sollevare gridi di allarme per le pesanti ripercussioni di questa chiusura del mercato cinese. In Europa gli fa eco la Volkswagen, i cui lauti profitti derivano per circa metà dalle vendite in Cina.

Si tenga conto che Cina e Hong Kong hanno recentemente assorbito circa un quinto delle vendite di Nvidia. Il 70 per cento delle componenti usate da Apple è fornito da Cina (26%), Taiwan (23%) oltre che da Giappone e Corea, contro meno del 20% proveniente da produzioni made in Usa. L’interdipendenza commerciale e tecnologica entro la grande area del Pacifico si è velocemente radicata nelle aspettative degli operatori e non è facilmente modificabile in nome della politica.

In linea col nuovo corso di Biden, il Giappone ha annunciato restrizioni sull’export alla Cina di macchinari per la produzione dei chips più avanzati. Per tutta risposta la Cina minaccia di interrompere le catene di fornitura dei chips meno sofisticati ma a largo mercato, il che aggrava le preoccupazioni del business americano che hanno sempre fatto conto su queste forniture che consentono di abbattere i costi dei beni finali.

Le polemiche su decoupling-derisking dell’Occidente nei confronti del gigante cinese sono all’ordine del giorno presso gli osservatori (politici, economisti, imprenditori, managers., esperti), riflettendo notevoli diversità di opinioni e di analisi. Alcuni accusano Biden di aver posto troppa enfasi sugli aspetti militari, anche facendo leva sul Quad (Quadrilateral Security Dialogue, composto da Usa, Giappone, India e Australia) e sull’accordo strategico a tre Usa, Regno Unito, Australia (Aukus). Molti auspicano una pacifica convivenza tra Cina e Taiwan che non stravolga la storia dei successi economici e tecnologici della comunità cinese di Taiwan. In Europa, i cui vicinissimi confini territoriali con il teatro della guerra russo-ukraina suscitano paure che non hanno precedenti dai tempi della guerra fredda, per favorire il ritorno ad una piena cooperazione col gigante cinese, taluni auspicano perfino un coinvolgimento della Cina nella ricostruzione post-bellica dell’Ukraina.

Larry Summers, citato da Sergio Fabbrini su questo giornale del 28 maggio con una punta di polemica nei confronti di Biden, ricorda che storicamente l’importazione di prodotti a basso costo dalla Cina ha contribuito ad alzare il tenore di vita di milioni di americani, mentre i dazi di rappresaglia contro le importazioni di acciaio dalla Cina hanno al massimo difeso il lavoro di 60.000 lavoratori statunitensi.

Serve dunque uno sguardo lungo, cercando una “productive relationship” con la Cina (Michel Green, già assistente per la sicurezza e gli affari asiatici dell’amministrazione Bush, Foreign Affairs, novembre 2022). Dieci anni fa l’amministrazione Obama faceva l’occhiolino al leader emergente Xi Jin Ping vagheggiando un “nuovo modello di relazioni tra grandi potenze” e nasceva un RCEP (Regional and Comprehensive Economic Partnership) tra 14 paesi, inclusi Usa e Cina. Gli umori cambiarono rapidamente pochi anni dopo, quando il governo australiano pretese una indagine internazionale sulle origini del Covid-19 ma soprattutto pose un veto all’ingresso delle compagnie cinesi Huawey e ZTE dal suo mercato delle telecomunicazioni.

Gli allarmi circa un vicino “sorpasso” del Pil cinese sul Pil americano si sono di recente ridimensionati, alla luce di segnali come l’arretramento demografico e il rallentamento della produttività cinesi (Economist, maggio 2023).

Quanto alla temuta “guerra dei sussidi” scatenata dall’aggressiva politica industriale americana (IRA, Chips&Science Act, una voce autorevole come quella del premio Nobel Paul Krugman (New York Times del 9 maggio) sottolinea la netta svolta della politica industriale Usa a favore dei sussidi all’offerta (sfuggendo tuttavia alla tentazione di “picking the winners”) piuttosto che dei dazi. Lo stesso Krugman ritiene che sia meglio rischiare un crescendo di sussidi in rivalità con l’Europa, piuttosto che restare inerti di fronte ai segnali drammatici di peggioramento nel cambiamento climatico globale.

(Sole 24Ore, 6 giugno 2023)

Fonte: Sole 24Ore, 6 giugno 2023

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