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L’Eni è rimasta in riserva

Davvero un peccato che il 2007, appena presentato da Paolo Scaroni come un anno fantastico per l’Eni, con ricavi per 87 miliardi e utili di 10, si chiuda per lui con il rischio di vedere sfumare le sue stock option: il titolo si è tenuto ostinatamente sotto i prezzi
(22,8 euro nel 2005; 23,11 nel 2006; 27,45 euro nel 2007) indicati dal piano da cui dipende questa parte così importante degli emolumenti dei manager. E altrettanto in dubbio potrebbe essere il bonus legato alle performance del gruppo, che nel 2006 si era concretizzato in un assegno da 834 mila euro. In realtà la performance operativa è peggiorata, l’utile netto adjusted (cioè
depurato) scende del 9 per cento, la redditività del capitale è calata dal 22,7 al 19,3 per cento. A Scaroni non resta che attendere e sperare che la Borsa si entusiasmi per il titolo nei prossimi tre anni, l’arco di tempo per l’esercizio delle stock option, ma anche di un nuovo mandato, che chissà se sarà suo. Il presidente e amministratore delegato del gruppo petrolifero si avvia infatti alla scadenza, e se il borsino delle nomine lo considera ben piazzato per una riconferma, contro di lui vengono lanciate candidature “peso massimo” come quella di Corrado Passera, amministratore delegato di Banca Intesa che, vere o finte, fanno pensare che i giochi non siano del tutto chiusi.
Comunque vada, Scaroni può contare su una liquidazione di 7 milioni di euro, più un anno di stipendio, cioè un milione e 430 mila euro, per rifiutare per 12 mesi incarichi in concorrenza con il business Eni. Prebende da grande major petrolifera, non c’è dubbio. Ma il gruppo fondato da Enrico Mattei sotto la gestione Scaroni ha faticato non poco a comportarsi da major. A fine marzo 2005 il titolo viaggiava sui 20 euro, oggi è attorno ai 23. L’indebitamento del gruppo è salito a 17 miliardi di euro. Il record, più volte promesso, di arrivare a 2 milioni di barili di produzione è slittato dal 2008 al 2009 e ora al 2011. La “vita residua” delle riserve si è via via assottigliata a dieci anni (era di 14 anni nel 2000) sia perché correlata al prezzo crescente del greggio, ma anche a testimoniare la difficoltà di aggiungere scoperte di nuovi pozzi, insomma di sviluppare l’attività di ricerca. Soprattutto, nel corso del 2007 Scaroni si è improvvisamente accorto che stava ballando sull’orlo del
burrone: a fine anno la produzione di idrocarburi del gruppo rischiava l’inversione di marcia. Invece di crescere, sarebbe diminuita del 2 per cento. Un dato che gli analisti del settore considerano come un allarme rosso.
Poiché all’uomo il dinamismo non manca, sono scattate le contromisure. In una manciata di mesi, Scaroni ha messo mano al portafoglio e fatto shopping a tappeto, diventando una specie di zio d’America del settore, «il compratore più attivo tra le major del petrolio», come ha scritto il “Financial Times”. Prima le spoglie dell’ex Yukos, poi campi nel Golfo del Messico e in Alaska, infine la compagnia britannica Burren Energy, con pozzi in Congo e Turkmenistan. Risultato: 2,3 miliardi di barili di riserve incamerati e il consuntivo della produzione dell’anno salvato con 50 mila provvidenziali barili in più. Tutto al costo di una impennata dei debiti, più che raddoppiati, visto che lo shopping è costato una diecina di miliardi, tutti a prestito. Mai e poi mai, per i nuovi acquisti, Scaroni avrebbe potuto attingere all’utile, visto che per la metà di esso è destinato a remunerare, con un dividendo di 1 euro e 30 ad azione (più ricco degli anni precedenti) la delusione degli azionisti per la scarsa performance del titolo. Azionisti che vedono in prima fila il Tesoro, con il 20 per cento, e in seconda la Cassa depositi e prestiti (in cui siedono le fondazioni bancarie) con il 10. Un terzo della stecca dividendi, quindi, va a loro, che non ci avrebbero rinunciato per nessuna ragione.
Shopping troppo caro? Pazzie da manager in difficoltà? Gli analisti calcolano che in media le acquisizioni sono avvenute a 10 dollari al barile, che – visto il prezzo corrente di 100 – sembrano pochi. Ma la maggior parte dei campi vanno sviluppati e richiedono investimenti.
La sola Burren, ha commentato sempre il “Financial Times”, è stata pagata con un premio del 50 per cento sulle quotazioni di Borsa: la spiegazione amichevole è che l’Eni sia sicura di trarre da quei pozzi più degli inglesi; quella opposta è che Scaroni sta pagando un sacco di denaro per un affare che non cambia il futuro dell’Eni, ha concluso il quotidiano britannico.
Non che agli altri big del petrolio vada meglio. La produzione di Shell è da sei anni che declina, Exxon Mobil e Chevron crescono poco, Bp scende. E anche per loro la Borsa non è una passeggiata. Come si spiega questa difficoltà con il petrolio alle stelle, che quindi accresce il valore delle riserve delle compagnie? Si spiega col fatto che i contratti di “production sharing” prevedono che quando la quotazione sale, il paese produttore ha diritto a una fetta maggiore del petrolio estratto, e quindi la compagnia ne ha un effetto
negativo: per l’Eni ogni dollaro in più del prezzo del brent si traduce in duemila barili in meno al giorno.
Pesa, infine, la crescente attitudine dei paesi produttori a vendere a caro prezzo le proprie risorse. L’Eni ne ha fatto le spese in Kazakhstan, dove ha perso il ruolo leader nel consorzio per estrarre idrocarburi nelle inospitali acque del mar Caspio. «A Kashagan, uno dei pochi giacimenti giganti al mondo, l’Eni aveva in mano il jolly», dice un analista, «ora non lo ha più». Il governo kazako ha preteso di contare e incassare di più. Per JPMorgan la rinegoziazione si è tradotta per l’Eni e i suoi partner in una perdita di valore di 1,3 miliardi di dollari. Altri paesi stanno seguendo l’esempio: Alaska, Nigeria, Libia, Algeria e Venezuela stanno alzando la posta con l’Eni per continuare le perforazioni. L’unico asse privilegiato sembrava la Russia, alla cui Gazprom l’Eni ha fatto il favore di acquistare le spoglie della compagnia Yukos con la promessa di rivendergliele quando i russi avessero voluto. Eppure oggi anche la Gazprom alza il tono, puntando a una fetta di Snam Rete Gas, controllata dell’Eni e gallina dalle uova d’oro del gruppo.
Se il tradizionale lavoro delle sette sorelle – pozzi, pozzi, e ancora pozzi – si fa difficile, e le alleanze infide, cresce la tendenza a investire i cash flow, che pure ci sono, e assai ricchi, ricomprando azioni proprie. Lo hanno fatto tutte le major e anche l’Eni, che ha speso negli ultimi anni 6 miliardi per il 9 per cento del proprio capitale (nel 2007 in media a 24,6 euro per azione, più del corso attuale). Anzi, Scaroni a fine anno aveva lanciato l’idea di togliere definitamente quella quota dal mercato. L’effetto sarebbe stato quello di dare una frustata al valore del titolo. Il consiglio d’amministrazione lo ha stoppato, dando un nuovo colpo a dei rapporti di governance non facili, e di cui potrebbe fare le spese il presidente, Roberto Poli, dato in uscita.
In vista della scadenza del mandato, ora il capo dell’Eni tenta di sedurre gli analisti promettendo un ritorno degli investimenti (51 miliardi di euro di qui al 2011) e una ripresa della produzione del
4,5 per cento medio all’anno. Insomma, Scaroni tenta un rilancio dell’immagine dell’Eni come major internazionale, dopo che in questi anni il business principale è stato quello di vendere gas in Europa, dove è diventata il più grosso operatore. «Si è trasformata in una utility», commenta un analista (che come gli altri non vuole essere
citato): «Distribuisce dividendi e invia bollette del gas e adesso anche dell’energia elettrica, in concorrenza con l’Enel».
All’immagine, d’altra parte, Scaroni ci ha sempre tenuto, visto che oggi il suo budget comunicazione e pubblicità raggiunge la bella cifra di 130 milioni di euro. Arrivato al vertice del gruppo dall’Enel, e prima ancora dalla Techint (per una “dazione” al Partito socialista dell’epoca è incappato in Mani pulite), la sua nomina ha creato discontinuità rispetto al passato, quando quella poltrona era riservata a esperti allevati a pane e petrolio. Eppure Scaroni si è subito impadronito del ruolo, anche emarginando, come si sussurra nel grattacielo dell’Eur, gli uomini della vecchia guardia. Ultimamente, a farne le spese è stato Angelo Taraborrelli, la cui testa di capo della raffinazione e marketing è caduta: da una poltrona centrale è stato paracadutato alla Syndial, detta “la pattumiera” dell’Eni in quanto si occupa di bonifiche di vecchie aree della chimica.
Certo, i fedelissimi di Scaroni, dal capo del personale Salvatore Sardo all’assistente Raffaella Leone, al giovane Marco Alverà, messo a gestire i rapporti più delicati con i russi, non sono stati visti di buon occhio dal vecchio establishment del gruppo. Ma il trauma dell’arrivo di un nuovo boss con il suo staff è nelle cose.
Meno digeribile, nel palazzo, l’influenza di cui è accreditato Luigi Bisignani, vecchio amico di Scaroni ed eterno brasseur d’affaires che attraversa tutte le stagioni, dalla P2 agli affari tipografici della Ilte, oggi adottata come stampatrice per il nuovo prossimo house organ del gruppo, “Oil”. Per le firme, l’Eni ha puntato alto: la giornalista Lucia Annunziata, l’ex portavoce della Santa Sede Joaquin Navarro Vals, e il giornalista Rai Marco Ravaglioli, genero di Giulio Andreotti. Chissà se lo Scaroni di fine mandato porterà avanti il piano, ma certo l’equilibrio politico nel bouquet di nomi è mirabile.
E abilissimo Scaroni è sempre stato, anche quando dopo aver deciso di nominare capo della security Eni Giovanni Cosentino, aiutante di capo del generale della Finanza Roberto Speciale, ne ha fatto saltare l’assunzione in piena bagarre. Ora potrebbe riportare in auge un vecchio progetto: cambiare il nome di Eni, adottando quello di Agip per tutto il gruppo. Ma per questo gli serve un nuovo mandato.

Fonte: L'Espresso n.9_ 29 febbraio -7 marzo 2008

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