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Juncker la concorrenza e il guazzabuglio fiscale

Centinaia di imprese coinvolte, multinazionali per giunta, tasse evase nella sola Germania per 30 miliardi l’anno: la notizia è già da prima pagina. Se poi il paradiso fiscale non è tra le palme dei Caraibi ma negli austeri palazzi del Lussemburgo, di cui presidente del Consiglio e ministro delle Finanze è stato per 15 anni Jean-Claude Juncker, il primo presidente della Commissione europea a essere votato dal Parlamento di Strasburgo, il fatto è politico e potenzialmente esplosivo.

«Nessuna legge europea è stata violata», ha detto Juncker, dopo una settimana, e con l’impegno a procedere verso uno «scambio automatico di informazioni» ha calmato le acque. Il sostegno del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha chiuso la vicenda. E poi si scopre, come se non fosse un segreto di Pulcinella, che “così fan tutte”: adesso è il turno dell’Olanda e della Starbucks. Se tutto finisce nel calderone della lotta all’evasione, dell’armonizzazione delle aliquote, delle ridicole imposte pagate dalle multinazionali sui guadagni che fanno con i nostri dati, si finisce di perdere di vista la natura del problema, anzi dei problemi. Ammesso che di problemi si tratti.
L’Unione europea, come definita dal Trattato di Maastricht, è fondata sul presupposto che è responsabilità dei singoli stati condurre la propria politica economica al fine di contribuire agli obbiettivi della comunità (art. 102 a); l’armonizzazione richiesta dall’art. 99 riguarda le leggi sulle imposte indirette (turnover taxes). Quanto agli utili, tutti i Paesi son liberi di tassarli con le aliquote che ritengono: per gli utili di impresa, l’Irlanda applica il 12,5%, l’Inghilterra era al 30% e in dieci anni è scesa al 20%. La concorrenza fiscale tra Paesi non è un favore concesso “chiudendo un occhio”: è un elemento centrale della costruzione economica europea, voluta, tra l’altro, per evitare che, in assenza di concorrenza tra stati, le aliquote possano crescere senza limiti. Lo è soprattutto per coerenza logica, perché l’Europa, nei dieci anni che precedettero il suo costituirsi come unione monetaria, si era costituita come area di libero mercato, basato sulla concorrenza. È perché distorcono la concorrenza che sono proibiti gli aiuti di Stato; per questo sono vietate le aliquote speciali che, all’interno di un Paese, discriminino o favoriscano specifiche aziende, settori industriali, attività professionali, aree geografiche (ad eccezione di quelle riconosciute come svantaggiate).

Ciò di cui si parla nel caso Juncker non sono le aliquote, ma le loro specifiche applicazioni tramite i ruling tra società e amministrazione tributaria. Apparentemente analoghi ai nostri “interpelli”, i ruling in realtà sono accordi su operazioni che consentono di ridurre i carichi fiscali, pur agendo formalmente non sulle aliquote, ma sulle basi imponibili. Ad esempio, considerando certe azioni come una forma speciale di obbligazioni, e quindi i dividendi come interessi; oppure con triangolazione di servizi e forfetizzazione delle spese: una sfida alla fantasia che i fiscalisti raccolgono con comprensibile entusiasmo. Così il Lussemburgo ha un’imposta patrimoniale sulle società che quasi nessuno paga, e ha un’aliquota sugli utili del 29% molto teorica. Sono aiuti di Stato? In teoria no, lo schema si applica infatti alle strutture di conto economico o di stato patrimoniale, e i bilanci sono per le aziende come le facce per le persone, ognuno ha diritto alla propria. Sembra essere di questa opinione Juncker: egli si impegna non già ad “armonizzare” le aliquote o le basi imponibili, ma ad aumentare la trasparenza sui ruling, in modo che chiunque sappia quali sono le “interpretazioni” consentite delle norme. (Problema: chi proteggerà i diritti intellettuali dei fiscalisti?). In ogni caso, considerare come sottratti al fisco (nel caso specifico i 30 mld ci cui si diceva all’inizio) le imposte che una società avrebbe pagato secondo il code-tax del proprio paese di origine appare sprovvisto di senso: l’Europa che esiste non è uno stato unico e neppure gli Stati Uniti d’Europa. Se le “armonie”, come dice il poeta, sono “recondite”, è perché “diverse” sono le “bellezze” che gli stati stessi scelgono di far fiorire: è per questo che la legislazione fiscale è un tal guazzabuglio. Che cosa distingue una “politica economica” da un aiuto stato? Non è aiuto di stato selezionare settori industriali in cui uno stato vuole che il paese si sviluppi, come fece il “plan Beffa” del governo francese (tra l’altro, chissà che fine ha fatto)?

Diverso è il tema, pure in questa occasione sollevato, della tassazione delle multinazionali americane, in particolare le imprese di internet e di e-commerce. Questo a sua volta è duplice. Uno deriva dalla legislazione fiscale degli Usa, che di fatto consente alle imprese americane di non pagare imposte sugli utili prodotti all’estero finché non vengono rimpatriati. Credo che lo scopo politico dell’amministrazione fosse di indurre le imprese americane ad espandersi nel mondo. Ma quella era l’epoca del “famigerato” SIM, il mitico Stato Imperialista delle Multinazionali, mentre oggi c’è la globalizzazione. L’altro tema è quello del luogo dove si consideri si realizzi, e quindi vada tassata, l’attività di un’impresa. Se il prodotto sono auto o elettrodomestici, la cosa è semplice. Ma se l’azienda opera in “mercati a due versanti”, uno in cui regala servizi e raccoglie dati, l’altro in cui vende dati e raccoglie soldi, in quale dei due versanti (e quindi dei due Paesi) “lavora” nel senso tradizionale del termine? È vero che sovente anche le aziende in questione utilizzano il sistema dei ruling, e che quindi anche a loro si applicano le considerazioni precedenti. Ma il problema di fondo è un altro, e altri i temi che esso solleva, ed è bene tenerli distinti da quelli che riguardano Juncker e il Lussemburgo.

Fonte: Il Sole 24 Ore - 18 novembe 2014

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