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Italia, ricchi e poveri

Montezemolo guadagna come 671 pensionati. Scilipoti come venti precari. E le disuguaglianze sociali invece di diminuire, aumentano. Il presidente dell’Istat fa i conti e lancia l’allarme: così rischiamo di esplodere.
Il manager italiano meglio pagato, Luca di Montezemolo, nel 2010 ha guadagnato ogni mese quanto 671 pensionati “medi”. Un deputato, un “peon” qualunque non il presidente della Camera, ha percepito quasi 20 volte la retribuzione di un precario: un co.co.pro. iscritto alla gestione separata dell’Inps (dati 2007, prima della Grande crisi), non Maurizia, la precaria impertinente che, secondo il ministro dell’Innovazione Renato Brunetta, non dovrebbe lamentarsi. E che a 39 anni, con 1.800 euro netti, si barcamena tra un incarico a tempo e l’altro, con tutele sanitarie e previdenziali minime, senza certezze per il futuro.
Sono solo due esempi dell’abisso che separa il mondo dorato dei supermanager, dei politici, dei professionisti di successo dalla dura realtà di chi lavora nelle fabbriche e negli uffici, di chi il posto l’ha perso oppure non l’ha mai avuto. E che ora ha una preoccupazione in più: sente che sono in pericolo quelli che considerava diritti acquisiti: la pensione, che non sarà più indicizzata al costo della vita, il rinnovo del contratto (se è un dipendente pubblico) che non coprirà più la sua retribuzione dagli effetti dell’inflazione.
La manovra approvata dal governo su qualcuno picchia duro: toccare i diritti acquisiti significa operare sulla carne viva della gente. E in una fase come quella attuale il dolore diventa più acuto.Per vari motivi.
L’economia non cresce: la torta da spartire è sempre la stessa e le persone che se la devono dividere aumentano. Salari e stipendi sono fermi da anni. La diseguaglianza tra chi sta meglio e chi sta peggio sembra ampliarsi anziché ridursi. E alcuni dei contenuti della manovra contribuiscono ad alimentare questa sensazione. Il pensionato da 1.400 euro che deve rinunciare a una parte dell’indicizzazione non è certo un “ricco”: come può essere contento se la stessa manovra promette di ridurre (dal 43 al 40 per cento) l’aliquota sui redditi più alti e se gli annunciati tagli ai costi della politica sono rimandati alla prossima legislatura?
Ragionare sull’equità dei provvedimenti di finanza pubblica non è facile: si rischia di sconfinare nella demagogia. E poi se si vuole davvero ridurre il deficit e il debito pubblico da qualche parte i soldi bisognerà pur prenderli.
Ma il disagio è palpabile. E “l’Espresso” ha chiesto a Enrico Giovannini, presidente dell’Istat ovvero la massima autorità nella lettura delle statistiche che descrivono la realtà italiana, quanto sia giustificata la sempre più diffusa percezione di iniquità che si registra nella popolazione. “La diseguaglianza in Italia è aumentata: su questo non ci sono dubbi”, spiega Giovannini. Dunque, il divario tra “ricchi” e “poveri” si è ampliato. “Anche se – precisa il presidente dell’Istat – il bilancio pubblico, redistribuendo le risorse, riesce a ridurre la diseguaglianza a livello di reddito. E così attenua il fenomeno”.
La progressività delle imposte (chi ha un reddito alto paga in proporzione più tasse) e la spesa sociale, quindi, funzionano. Almeno in parte. Già, perché se invece si guarda al patrimonio la redistribuzione via bilancio pubblico sembra funzionare di meno: la diseguaglianza nella ricchezza accumulata (case, titoli, quote di imprese) sembra essersi accentuata, anche a causa della sostanziale soppressione dell’Ici, l’imposta sugli immobili.
I segnali di disagio sono visibili. “In Italia la propensione al risparmio, cioè la parte di reddito che non è destinata al consumo, è diminuita e ora è la più bassa tra quelle dei grandi paesi europei”, osserva Giovannini. Vuol dire che per mantenere un certo tenore di vita e un livello di consumi adeguato le famiglie devono rinunciare a mettere da parte soldi per il futuro. “Una scelta”, aggiunge, “che può andar bene per qualche tempo, per superare una fase congiunturale difficile, ma che non può essere una soluzione permanente”. Altrimenti si mette a rischio la capacità di crescere dell’economia.
Recenti ricerche della Banca d’Italia hanno fatto vedere che la riduzione della propensione al risparmio non riguarda tutti indistintamente: alcune categorie sono riuscite ad aumentare la propria mentre altre la riducevano (grafico qui sopra). E anche questo dato conferma che la diseguaglianza tende ad accentuarsi.
A complicare il quadro intervengono anche fenomeni storici come la globalizzazione dell’economia. “In Italia e nei maggiori paesi occidentali la quota di reddito che va al capitale è cresciuta e, in modo speculare, quella che va al lavoro si è ridotta”, spiega Giovannini. “L’ingresso massiccio nel sistema economico mondiale di Paesi che prima partecipavano solo marginalmente ha creato una pressione sui salari”. Che infatti non crescono. E se non crescono i salari non crescono neanche i consumi.
Le imprese, invece, stanno tornando ai livelli dei margini di profitto pre-crisi. Eppure non investono o investono poco perché non vedono chiaro nel futuro. E questo spiega il fatto che, sebbene in molti Paesi il reddito tornerà presto ai livelli del 2008, l’occupazione sia rimasta molto indietro.
“In Italia”, aggiunge il presidente dell’Istat, “ci sono stati altri due cambiamenti importanti in questi anni. Molte famiglie stanno ripensando i loro modelli di consumo. Per prudenza, per insicurezza. Fatto sta che hanno ridotto le spese, rinunciando al superfluo. L’altro cambiamento riguarda lo spiazzamento della produzione nazionale. Ci sono settori, dall’elettronica ai mezzi di trasporto persino ai mobili, che in misura crescente sono dominati dai produttori esteri: se anche ci fossero i soldi per stimolare la domanda delle famiglie a trarne beneficio sarebbero le economie di altri Paesi più che la nostra”.
C’è poi un’altra forma di diseguaglianza. Quella tra generazioni, tra padri e figli. Se ne parla di meno ma non è meno importante. “Per affrontare la crisi”, osserva Giovannini, “si è puntato sul mantenimento dell’occupazione dei genitori, con la Cassa integrazione. L’obiettivo era garantire la tenuta del sistema proteggendo il reddito delle famiglie in modo che garantissero una rete di protezione ai giovani, che hanno subito di più la caduta occupazionale. L’operazione ha funzionato perché ha reso meno drammatica la crisi. Ma se i giovani rimangono esclusi troppo a lungo si pregiudica il futuro. Di 532 mila posti persi dal 2008 il 90 per cento riguarda i giovani. I Neet, coloro che non lavorano né studiano (vedere articolo a pag. 136, ndr) sono 2 milioni e vivono grazie al sostegno delle famiglie. Infine, anche se non abbiamo ancora dati precisi, sembra che molti giovani stiano andando all’estero: chi può se ne va”.
Se invece lavorano, i giovani sono in maggioranza precari. Per di più con poche prospettive. “Tra coloro che hanno trovato un lavoro atipico”, nota il presidente dell’Istat, “dopo cinque anni solo la metà ne trova uno stabile. Non può funzionare così. Le forme di occupazione atipica sono state introdotte per garantire la flessibilità del mercato del lavoro. Ma se i giovani precari sono inizialmente pagati di meno e poi non trovano un lavoro stabile, “perdono” sempre”.
Egualitarismo è una parola passata di moda, spazzata via, negli anni della crescita a tutti i costi, da altre parole d’ordine: meritocrazia, efficienza, differenziazione retributiva. Al punto che la diseguaglianza poteva sembrare una condizione per la crescita. Negli Stati Uniti, per esempio, il divario tra ricchi e poveri è progressivamente aumentato e allo stesso tempo lo sviluppo è stato superiore a quello degli altri paesi industrializzati. Che cosa è cambiato? “Oltre un certo livello di diseguaglianza”, risponde Giovannini, “ci può essere un problema di coesione sociale. Se questa viene meno è difficile fare scelte condivise, gestire la transizione, attuare delle politiche che impongono sacrifici. A quel punto la diseguaglianza penalizza la crescita perché influenza negativamente le aspettative: la gente ha paura del futuro, le famiglie non consumano, le imprese non investono”.
Ma per ridurre la diseguaglianza la strada più breve è l’aumento della progressività fiscale: far pagare più tasse ai ricchi. Dopo che per decenni tutti i paesi si sono mossi in direzione contraria: la riduzione del numero delle aliquote, l’abbassamento dell’aliquota massima, addirittura l’aliquota unica (flat tax). “Non sta a me dare suggerimenti in questo campo”, osserva il presidente dell’Istat, ” mi limito a constatare che tutti concordano su un dato: il lavoro è tassato troppo, bisogna spostare il prelievo su altri fronti”.
Per evitare i tagli di spesa più dolorosi e i sempre sgraditi aumenti d’imposta la strada maestra è la riduzione degli sprechi, a cominciare dai costi della politica. Il governo ha scritto norme severe che devono passare all’esame del parlamento, dove le resistenze saranno forti, e che dovranno essere attuate. Il presidente dell’Istat potrebbe essere scelto, secondo quanto hanno fatto sapere il presidente del consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell’economia Giulio Tremonti, per un compito delicato: la presidenza di una commissione che dovrà stabilire i livelli medi in Europa dei trattamenti economici di politici e grand commis dello Stato. Costa troppo la politica in Italia? “Non sono abbastanza documentato per rispondere”, si schermisce Giovannini. “Per esempio, da noi il numero dei parlamentari è simile a quello francese, ma maggiore di quello tedesco. Poi ci sono tutti gli altri livelli di governo. Quanto alle retribuzioni degli eletti e degli alti dirigenti le comparazioni internazionali non sono facili. In molti casi, per esempio, bisogna infatti dare un valore a dei fringe benefit, come la disponibilità di una casa”. Di misure concrete ancora non c’è traccia, ma almeno una linea d’azione è abbozzata.Per ora bisogna accontentarsi.

Fonte: Espresso 8 luglio 2011

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