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Intrecci, non basta la “moral suasion”

C orreva l’anno 1914. Il Comitato Pujo, costituito all’interno del Senato americano, analizzando i collegamenti tra le principali banche di New York e il settore industriale, sostenne che le connessioni tra società in competizione hanno la finalità di restringere la concorrenza. L’allora presidente della Corte Suprema Louis Brandeis sintetizzò così l’argomento:«La pratica di condividere alcuni tra gli amministratori è alla base di molti mali e offende le leggi umane e divine.
Applicata a società tra loro rivali, essa tende alla soppressione della concorrenza e alla violazione della legge Sherman. Applicata a società che hanno rapporti commerciali tra di loro, tende alla slealtà e alla violazione della legge fondamentale per cui nessun uomo può servire due padroni».
È passato più di un secolo ma quelle parole suonano ancora di grande attualità. Soprattutto in Italia e soprattutto nell’Italia delle banche e delle assicurazioni. Dove, come ha ricordato martedì il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà, «le prime evidenze raccolte nell’indagine conoscitiva sulla governance delle imprese bancarie e assicurative danno conto di un’amplissima diffusione dei legami tra concorrenti, pur in assenza di situazioni di controllo. Con riferimento alle società quotate, il 45% di esse annovera tra i propri soci imprese concorrenti; l’80% conta all’interno dei propri organi di amministrazione persone presenti nei board di competitori. C’è un caso di impresa con ben 13 persone (Generali, ndr) e un altro con 10 (Mediobanca, ndr) che siedono in organi di governance di altre società del settore».
Catricalà ne ha fatto un suo cavallo di battaglia da quando la legge sul risparmio (262/2005) ha attribuito all’Antitrust i poteri di vigilanza sulla concorrenza nel settore bancario. Con un obiettivo ambizioso: spezzare quella catena di rapporti personali che ingessano l’assetto di vertice delle maggiori società finanziarie italiane. Tutte le decisioni sulle fusioni bancarie, con i relativi risvolti assicurativi, degli ultimi anni (Intesa Sanpaolo, Banco Popolare, Ubi Banca) hanno messo in risalto gli intrecci societari e gli uomini che ne sono la massima espressione. Affrontando casi delicati come quelli del presidente delle Generali Antoine Bernheim e quello del presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli.
Superare il «capitalismo di relazioni», basato sui rapporti personali, significa compiere un passo importante verso la contendibilità vera delle imprese in generale e delle banche in particolare. Impedendo al management di difendersi da scalate ostili, che spesso ne sanzionano l’inefficienza, con strumenti di governance come i patti di sindacato.
Il primo bilancio di questo approccio non è peraltro positivo, se non per il fatto di aver finalmente posto il problema alla luce del sole. Lo ha ammesso lo stesso Catricalà nella sua Relazione annuale: «In un contesto realmente concorrenziale le imprese dovrebbero seguire rigidi criteri per impedire il determinarsi di conflitti di ruolo per i loro amministratori. La dimensione patologica del fenomeno che si va delineando richiederà ulteriori approfondimenti da parte nostra; in ogni caso, costituisce motivo di fondata preoccupazione l’assenza di apprezzabili reazioni endogene che correggano una così macroscopicaanomalia del sistema di governance ». In altre parole le banche e le assicurazioni non hanno raccolto l’invito ad andare ciascuna per la sua strada, senza incroci azionari e possibilmente senza consiglieri in comune. Resta il complesso intreccio UniCreditMediobanca-Generali-Intesa Sanpaolo, resta il triplo incarico di Bernheim (Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo), resta il doppio incarico di Bazoli (Intesa Sanpaolo e Ubi Banca), Romain Zaleski è presente nel capitale di cinque tra banche e assicurazioni, Italease è controllata da sei tra banche e assicurazioni. Insomma, la moral suasion non ha funzionato (anche perché dalla Banca d’Italia, su questo fronte, non è arrivato un grande aiuto se si eccettuano le severe regole sulla governance duale). E l’Antitrust al momento non ha gli strumenti per imporre comportamenti più virtuosi da cui trarrebbe beneficio anche il settore non finanziario dove gli intrecci non mancano. Basta pensare all’assetto azionario di Rcs o di Pirelli. O al reticolo di incarichi che congiunge le imprese attraverso gli amministratori in comune. Quella casta di 75 personaggi inamovibili che, come hanno documentato Paolo Santella, Carlo Drago e Andrea Polo in un eccellente studio (vedere il Sole–24 Ore dell’8 novembre 2007), collegano il 76% delle società italiane quotate.
Questa struttura reticolare viene comunemente interpretata come un modo per difendere il controllo delle società, contro il rischio di scalate ostili: le partecipazioni distribuite tra gli “amici” e la presenza degli amici stessi nei consigli di amministrazione sono un’alternativa all’utilizzo di capitali propri che a volte non ci sono e a volte vengono utilizzati per altri scopi o magari per restituire il favore. Assai meno si è dettoe scritto sul problema del rischio di collusione che gli intrecci tra le imprese portano con sé.
Correva l’anno 1914. Allora la sezione 8 del Clayton Act proibì le connessioni tra società operanti negli stessi mercati. Esse avrebbero infatti facilitato la collusione tra le diverse società, creando un canale di comunicazione informale fra amministratori che questi avrebbero potuto utilizzare per stipulare accordi contro l’interesse dei consumatori. In sostanza già allora si arrivò alla conclusione che questo genere di strumento può essere un utile mezzo per “cartellizzare” il mercato: la condivisione di amministratori consente infatti a chi partecipa al cartello di avere un osservatore privilegiato per controllare attività potenzialmente in grado di mettere in pericolo l’accordo di cartello. E pensare che è passato quasi un secolo.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 26 giugno 2008

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