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Intervista al Ministro degli Interni Giuliano Amato
“Sul Paese impazzito ha ragione Prodi”

• da La Stampa del 17 novembre 2006, pag. 5

di Carlo Bastasin
Scuotendo con parole nette il Paese, il presidente del Consiglio ha detto cose sacrosante». Giuliano Amato difende l’anomalo grido di allarme di Prodi sul Paese impazzito, che denuncerebbe, a suo parere, sintomi pericolosi che corrodono il ruolo e il significato della politica in Italia e in Europa. Il ministro dell’Interno, ex vicepresidente della Convenzione europea, parla di «malattia della politica» che davanti a società sempre più frammentate sta perdendo la capacità di coagulare il consenso e disgrega così la capacità di governo. Un problema della politica nazionale che c’è anche in altri Paesi e si ripercuote sulla politica europea. Ad entrambi i livelli, italiano ed europeo, Amato vede l’urgenza di interventi di riforma di costituzionale. Per l’Italia in particolare propone di istituire una speciale Convenzione di riforma che si occupi anche della nuova legge elettorale.

«Prodi spiegava che i sacrifici giusti non sono necessariamente quelli degli altri: abbiamo trovato le casse vuote e a noi, così come agli italiani, interessa che lo Stato funzioni e che non venga fatto “morire” di soli stipendi pubblici mentre manca la carta per spiccare i mandati di cattura. Così ci siamo rivolti agli italiani dicendo: faremo il possibile per recuperare entrate nel più breve tempo possibile attraverso il recupero dell’evasione fiscale, che in questi anni è cresciuta, ma nel frattempo occorre un contributo anche per via fiscale. Una comunità matura questo lo capisce, anche oltre gli errori di comunicazione. E se alla fine un presidente del Consiglio dice che non può ciascuno guardare soltanto al suo “particolare” ebbene Dio lo benedica, dice le cose giuste».

Non le pare che un esempio di razionalità dovrebbe venire dai partiti?
«Il problema riguarda tutti, a cominciare dai partiti. Anche da noi è emersa quella tendenza alla centrifugazione degli interessi politici che ha preso corpo in altri Paesi d’Europa. Una tendenza che erode i partiti maggiori, premia i più piccoli e quindi convince ciascuno che più pianta la bandierina su un frammento di società, anziché sul suo insieme, e più può ricavarne benefici elettorali. Di questo passo il bene comune ce lo scordiamo».

Dice che non è un problema solo italiano?
«La mia principale preoccupazione se guardo al futuro dell’Europa e della sua Costituzione è proprio dello stesso genere. Sistemi politici nazionali che vanno sempre più divaricandosi. E questa “malattia della politica” che fa crescere i frammenti del puzzle ma ne cancella il disegno. Questa sì è la questione che abbiamo davanti. Perché guardi che se noi non riusciamo, all’interno dei nostri Paesi, a coagulare solide maggioranze attorno al bene comune nazionale, non riusciremo nemmeno a trovare la missione comune europea».

E’ una denuncia del radicalismo nella politica?
«Noi guardavamo ai Paesi dell’Est europeo dove, finita l’era comunista, c’erano sistemi politici che si andavano formando con un accentuato e non sempre decifrabile pluralismo. Ma col passare del tempo questo si sta radicando. Stanno prevalendo movimenti tra il nazionalista, lo xenofobo, l’etico-religioso, il puramente localista. Che visione europea possono avere maggioranze che si costituiscono mettendo insieme formazioni del genere? Intanto crescono le ali estreme a scapito delle forze politiche più centrali. Queste ultime si mettono insieme e perdono consensi».

Non resta che un bipolarismo di solo due partiti?
«Il bipolarismo, non necessariamente di due partiti, è meglio della Grande coalizione, ma deve essere un bipolarismo per governare non per rappresentare. Una delle grandi direttrici della storia del 20° secolo è stata quella di affidare la pluralità delle domande sociali a robusti partiti che hanno saputo funzionare bene finché hanno saputo sia rappresentare sia filtrare. Se viene meno la funzione di filtro e rimane quella del rappresentare, il bipolarismo non può funzionare, perché appunto rappresenta una serie di istanze che non trovano il loro amalgama».

Bisogna cambiare i meccanismi della competizione politica per ripristinare la funzione di filtro?
«Dovremo pensare alla Costituzione italiana, oltre che a quella europea. Vannino Chiti ne ha parlato riferendosi alla legge elettorale. Ma aggiungerei anche altre limitate riforme di cui la Costituzione italiana ha bisogno».

A quali pensa?
«Il nostro federalismo è ancora un oggetto confuso e misterioso. Il bicameralismo ha bisogno di revisione: per quanti anni ancora vogliamo andare avanti con due Camere che hanno l’una la metà dei rappresentanti degli altri. Il Senato è la prova provata che metà dei deputati sono di troppo. E che qui sta prevalendo la funzione del rappresentare su quella del governare. Allora differenziamole. Scriviamo in chiaro poi che il primo ministro ha il potere di revocare i singoli ministri: anche questo è un bullone in più a beneficio della forza di governo».

Di queste riforme dovrebbe occuparsi il Parlamento?
«Se il Parlamento ce la fa, ci provi. Personalmente dubito che la necessità di affrontare tali questioni a una certa distanza dalla fine della legislatura possa essere soddisfatta da un Parlamento con un ordine del giorno così affollato e con una tale intensità di interventi, dibattiti e conflitti in ciascuno dei pezzi di legislazione che affronta. Tornerei allora all’idea di una sorta di Convenzione nominata dal Parlamento. Con parlamentari, ma anche con persone che esprimano la realtà dell’accademia, delle autonomie. Forse costoro avrebbero il tempo e il clima adatto».

Ma avviare un’iniziativa bipartisan per le riforme non finirebbe per condizionare il governo Prodi?
«Assolutamente no e Prodi non ha fatto che ribadirlo anche pochi giorni fa: i temi istituzionali non si risolvono a colpi di maggioranza. Un’iniziativa di riforma costituzionale non prefigura una maggioranza diversa. Sarebbe un errore clamoroso pensarlo».

Sarà possibile per il governo, fare politiche, come la Finanziaria, spiccatamente partisan, esponendosi a scontri frontali con l’opposizione proprio mentre discute con lei le riforme?
«Sotto questa obiezione c’è l’idea che l’Italia ha bisogno di una legge elettorale, ha bisogno di riforme istituzionali, ma che per farlo ha bisogno di cambiare maggioranza politica e di fare la maggioranza dei “saggi” che sarebbero, come è noto, i moderati di centro. Questo ragionamento non lo condivido proprio. Per questo dico creiamo una nuova sede e dimostriamo che centrosinistra e centrodestra riescono a trovare un accordo sulle regole del gioco».

Non sente nell’aria il nome infelice della «Bicamerale» (l’organo di riforma bipartisan che fallì proprio nel primo governo Prodi, ndr)?
«Sì, lo so, tutti i precedenti sono negativi. In fondo anche la mia Convenzione europea è diventata un precedente negativo. Ma la bontà delle idee si valuta di volta in volta in base alle alternative».

Torniamo all’Europa: quanto si è rafforzato, dopo il fallimento del tentativo di ratifica, il fronte dello scetticismo sul progetto di Costituzione europea?
«Chi dice “lasciamo perdere la Costituzione” vuole mostrarsi pragmatico, ma proprio sul terreno pragmatico si rivela privo di credibilità. Gli argomenti sono due: il primo è “dobbiamo digerire l’allargamento, è difficile integrare dieci più due nuovi Stati membri e volete farci perdere tempo con un dibattito costituzionale”. Il secondo è britannico: niente costituzione, serve “delivery”, efficacia nel produrre risultati. Quando parlo agli inglesi dico loro che farei un’offesa alla loro intelligenza se pensassi che dicano sul serio sciocchezze del genere. L’allargamento non riusciamo a digerirlo perché lo stomaco è troppo piccolo, era adatto per sei “portate”, mentre le portate sono diventate 27 e un Europa così sta sullo stomaco a se stessa».

Avverte concretamente la mancanza della Costituzione?
«Le conseguenze sono catastrofiche e si stanno già verificando: c’è un grande rallentamento della capacità decisionale e un tasso di democraticità che ci fa invidiare lo Stato di polizia di Maria Teresa d’Austria. Attualmente finisce che a decidere sono non i ministri, ma il Coreper (il Comitato degli ambasciatori permanenti a Bruxelles, ndr). I ministri fanno un breve giro di tavolo e poi sono gli ambasciatori a concludere, in modo che la volta dopo i ministri non devono più discutere, ma solo approvare. Certe volte sono decisioni che riguardano i diritti dei cittadini, nei quali in tutti i nostri Paesi c’è la riserva di legge, intesa come riserva del Parlamento. Se ci fosse la Costituzione europea, il numero di decisioni affidate a questo genere di meccanismo ad unanimità del Consiglio, senza Parlamento, sarebbe molto più ridotto. Il meccanismo normale sarebbe quello di coinvolgere il Parlamento il quale decide a maggioranza. E lo stesso Consiglio opererebbe a maggioranza. E se c’è la maggioranza c’è anche lo stimolo al compromesso nella decisione. L’unanimità impedisce il compromesso. Per uscire da questa degradata e degradante situazione dell’Unione europea serve una Costituzione europea».

Quanto all’obiezione «pragmatica» inglese?
«Valgono le stesse cose. Come si fa ad avere efficacia in politica estera se le responsabilità restano sparse e non si organizzano le istituzioni in modo che possano essere efficaci? Come può essere efficace la strategia di Lisbona se abbiamo un metodo di coordinamento aperto che è aperto ma non è di coordinamento? L’Unione non può funzionare meglio nell’assetto istituzionale esistente».

Il testo della Costituzione dovrà essere cambiato?
«Gli inglesi non vogliono la terza parte (quella che aggrega i trattati esistenti, ndr)? Togliamola pure. Salviamo la prima e la seconda parte. Al limite per farli contenti sono anche pronto a una clausola che dia forza giuridica alla Carta dei diritti, così abbreviamo tutto e anche la seconda parte non ha bisogno di essere fisicamente nel Trattato, pur rimanendovi giuridicamente».

Bisognerà abbandonare la parola Costituzione?
«Alcuni suggeriscono una strada dolorosa per uno come me. Dicono: “Rinuncia a un’architettura che si presenta come una Costituzione, ma porta a casa tutto quello che c’è dentro”. La considero una scelta di ultima istanza, ma non posso negare che chiamando quel documento Costituzione abbiamo creato insieme speranze e paure eccessive, col risultato che nei francesi e negli olandesi abbiamo creato l’aspettativa positiva che quella era “la loro” Costituzione, così i francesi si sono chiesti “dove sono i miei diritti sociali?” e gli olandesi “dove è la mia identità?” e hanno detto di no. E gli inglesi e forse i polacchi e forse i cechi dicono: “Ma se questa è una Costituzione allora vuole dire che nasce uno Stato a Bruxelles e noi siamo contro”. Sono loro che vanno convinti».

C’è grande attesa per il semestre di presidenza tedesca, quale sarà il suo ruolo?
«La nuova fase che comincia avrà nella presidenza tedesca un momento determinante, in vista del quale io stesso ho costituito un gruppo del tutto privato di “Saggi” di diversi Paesi europei che vuole dare un contributo di idee. La presidenza tedesca è un momento di svolta sia per l’autorevolezza e l’europeismo della Germania, sia per l’arrivo del nuovo presidente francese che può rimettere in moto la Francia. Ma stiamo attenti: rimettere in moto la Francia potrà significare prepararsi a una nuova ratifica da parte di tutti i Paesi. La Francia non andrà a Canossa. Del resto tutti gli europeisti sono già ora pronti a salvare la prima e la seconda parte della Costituzione aggiungendo un protocollo sociale per accontentare gli elettori francesi. Ma aggiungere un protocollo, che ha lo stesso rango di un Trattato, significa dover ratificare il nuovo testo da capo. E’ inutile ingannare i cittadini».

A quali pensa?
«Il nostro federalismo è ancora un oggetto confuso e misterioso. Il bicameralismo ha bisogno di revisione: per quanti anni ancora vogliamo andare avanti con due Camere che hanno l’una la metà dei rappresentanti degli altri. Il Senato è la prova provata che metà dei deputati sono di troppo. E che qui sta prevalendo la funzione del rappresentare su quella del governare. Allora differenziamole. Scriviamo in chiaro poi che il primo ministro ha il potere di revocare i singoli ministri: anche questo è un bullone in più a beneficio della forza di governo».

Di queste riforme dovrebbe occuparsi il Parlamento?
«Se il Parlamento ce la fa, ci provi. Personalmente dubito che la necessità di affrontare tali questioni a una certa distanza dalla fine della legislatura possa essere soddisfatta da un Parlamento con un ordine del giorno così affollato e con una tale intensità di interventi, dibattiti e conflitti in ciascuno dei pezzi di legislazione che affronta. Tornerei allora all’idea di una sorta di Convenzione nominata dal Parlamento. Con parlamentari, ma anche con persone che esprimano la realtà dell’accademia, delle autonomie. Forse costoro avrebbero il tempo e il clima adatto».

Ma avviare un’iniziativa bipartisan per le riforme non finirebbe per condizionare il governo Prodi?
«Assolutamente no e Prodi non ha fatto che ribadirlo anche pochi giorni fa: i temi istituzionali non si risolvono a colpi di maggioranza. Un’iniziativa di riforma costituzionale non prefigura una maggioranza diversa. Sarebbe un errore clamoroso pensarlo».

Sarà possibile per il governo, fare politiche, come la Finanziaria, spiccatamente partisan, esponendosi a scontri frontali con l’opposizione proprio mentre discute con lei le riforme?
«Sotto questa obiezione c’è l’idea che l’Italia ha bisogno di una legge elettorale, ha bisogno di riforme istituzionali, ma che per farlo ha bisogno di cambiare maggioranza politica e di fare la maggioranza dei “saggi” che sarebbero, come è noto, i moderati di centro. Questo ragionamento non lo condivido proprio. Per questo dico creiamo una nuova sede e dimostriamo che centrosinistra e centrodestra riescono a trovare un accordo sulle regole del gioco».

Non sente nell’aria il nome infelice della «Bicamerale» (l’organo di riforma bipartisan che fallì proprio nel primo governo Prodi, ndr)?
«Sì, lo so, tutti i precedenti sono negativi. In fondo anche la mia Convenzione europea è diventata un precedente negativo. Ma la bontà delle idee si valuta di volta in volta in base alle alternative».

Torniamo all’Europa: quanto si è rafforzato, dopo il fallimento del tentativo di ratifica, il fronte dello scetticismo sul progetto di Costituzione europea?
«Chi dice “lasciamo perdere la Costituzione” vuole mostrarsi pragmatico, ma proprio sul terreno pragmatico si rivela privo di credibilità. Gli argomenti sono due: il primo è “dobbiamo digerire l’allargamento, è difficile integrare dieci più due nuovi Stati membri e volete farci perdere tempo con un dibattito costituzionale”. Il secondo è britannico: niente costituzione, serve “delivery”, efficacia nel produrre risultati. Quando parlo agli inglesi dico loro che farei un’offesa alla loro intelligenza se pensassi che dicano sul serio sciocchezze del genere. L’allargamento non riusciamo a digerirlo perché lo stomaco è troppo piccolo, era adatto per sei “portate”, mentre le portate sono diventate 27 e un Europa così sta sullo stomaco a se stessa».
Avverte concretamente la mancanza della Costituzione?
«Le conseguenze sono catastrofiche e si stanno già verificando: c’è un grande rallentamento della capacità decisionale e un tasso di democraticità che ci fa invidiare lo Stato di polizia di Maria Teresa d’Austria. Attualmente finisce che a decidere sono non i ministri, ma il Coreper (il Comitato degli ambasciatori permanenti a Bruxelles, ndr). I ministri fanno un breve giro di tavolo e poi sono gli ambasciatori a concludere, in modo che la volta dopo i ministri non devono più discutere, ma solo approvare. Certe volte sono decisioni che riguardano i diritti dei cittadini, nei quali in tutti i nostri Paesi c’è la riserva di legge, intesa come riserva del Parlamento. Se ci fosse la Costituzione europea, il numero di decisioni affidate a questo genere di meccanismo ad unanimità del Consiglio, senza Parlamento, sarebbe molto più ridotto. Il meccanismo normale sarebbe quello di coinvolgere il Parlamento il quale decide a maggioranza. E lo stesso Consiglio opererebbe a maggioranza. E se c’è la maggioranza c’è anche lo stimolo al compromesso nella decisione. L’unanimità impedisce il compromesso. Per uscire da questa degradata e degradante situazione dell’Unione europea serve una Costituzione europea».

Quanto all’obiezione «pragmatica» inglese?
«Valgono le stesse cose. Come si fa ad avere efficacia in politica estera se le responsabilità restano sparse e non si organizzano le istituzioni in modo che possano essere efficaci? Come può essere efficace la strategia di Lisbona se abbiamo un metodo di coordinamento aperto che è aperto ma non è di coordinamento? L’Unione non può funzionare meglio nell’assetto istituzionale esistente».

Il testo della Costituzione dovrà essere cambiato?

«Gli inglesi non vogliono la terza parte (quella che aggrega i trattati esistenti, ndr)? Togliamola pure. Salviamo la prima e la seconda parte. Al limite per farli contenti sono anche pronto a una clausola che dia forza giuridica alla Carta dei diritti, così abbreviamo tutto e anche la seconda parte non ha bisogno di essere fisicamente nel Trattato, pur rimanendovi giuridicamente».

Bisognerà abbandonare la parola Costituzione?
«Alcuni suggeriscono una strada dolorosa per uno come me. Dicono: “Rinuncia a un’architettura che si presenta come una Costituzione, ma porta a casa tutto quello che c’è dentro”. La considero una scelta di ultima istanza, ma non posso negare che chiamando quel documento Costituzione abbiamo creato insieme speranze e paure eccessive, col risultato che nei francesi e negli olandesi abbiamo creato l’aspettativa positiva che quella era “la loro” Costituzione, così i francesi si sono chiesti “dove sono i miei diritti sociali?” e gli olandesi “dove è la mia identità?” e hanno detto di no. E gli inglesi e forse i polacchi e forse i cechi dicono: “Ma se questa è una Costituzione allora vuole dire che nasce uno Stato a Bruxelles e noi siamo contro”. Sono loro che vanno convinti».

C’è grande attesa per il semestre di presidenza tedesca, quale sarà il suo ruolo?
«La nuova fase che comincia avrà nella presidenza tedesca un momento determinante, in vista del quale io stesso ho costituito un gruppo del tutto privato di “Saggi” di diversi Paesi europei che vuole dare un contributo di idee. La presidenza tedesca è un momento di svolta sia per l’autorevolezza e l’europeismo della Germania, sia per l’arrivo del nuovo presidente francese che può rimettere in moto la Francia. Ma stiamo attenti: rimettere in moto la Francia potrà significare prepararsi a una nuova ratifica da parte di tutti i Paesi. La Francia non andrà a Canossa. Del resto tutti gli europeisti sono già ora pronti a salvare la prima e la seconda parte della Costituzione aggiungendo un protocollo sociale per accontentare gli elettori francesi. Ma aggiungere un protocollo, che ha lo stesso rango di un Trattato, significa dover ratificare il nuovo testo da capo. E’ inutile ingannare i cittadini».

Fonte: La Stampa del 17 novembre 2006

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