• domenica , 22 Dicembre 2024

Ingovernabilita’

Tentare di durare, con il rischio di una (ri)caduta letale, o cercare un accordo “minimo” e temporalmente definito, per preparare il Paese a nuove elezioni?
E adesso? Altro che Belgio felice senza governo, guardate cosa succede in Grecia, dove più di otto famiglie su 10 hanno tali difficoltà economiche da non essere in grado di far fronte agli impegni quotidiani – dall’affitto di casa alle bollette delle utenze, dal rifondere i prestiti delle banche al pagare le tasse – e capirete i rischi che corriamo. Rischi, peraltro, già sottolineati sia dai mercati, tra rialzo dello spread (subito trasferitosi sui rendimenti dei Btp) e preannuncio di downgrading, sia dalle cancellerie europee (grande coalizione in Germania per dire che l’Italia clawnesca procura contagio) e sia dai media di tutto il mondo (che dipingono l’Italia come un pericolo per l’Europa). Il disastro dell’ingovernabilità, della quale la colpa ricade interamente su una classe politica, quella della Seconda Repubblica, non solo inetta e screditata, ma anche incapace di capire che andava presentata agli italiani ben altra offerta politica per evitare che il 46% di loro schiumasse rabbia (13 milioni tra astensione e schede bianche e nulle, e 8,7 milioni di voti a Grillo, sommati insieme fanno 21,7 milioni di elettori su 47).
Persino Berlusconi, di solito riluttante ad occuparsi di crisi economica – preferendo sostenere che trattasi di invenzione, e che comunque parlarne genera pessimismo – si è lodevolmente espresso con la cautela che il momento richiede, ha parlato di pericoli da scongiurare e di responsabilità che tutti devono assumersi in una emergenza come questa, e ha richiamato la necessità di far presto rispetto a tempi ridondanti delle procedure istituzionali. Viceversa Bersani, cui spettava di parlare per primo, ha balbettato, evocando un accordo in Parlamento con Grillo che il “serial killer” genovese ha respinto sprezzantemente al mittente (“Bersani morto che parla”), dando un serio colpo alla sua segreteria (nel Pd c’è chi auspica apertamente, o dice di attendersi, le dimissioni del “perdente che è arrivato primo”). Come ha giustamente detto Marco Follini, uomo saggio e per questo rimasto fuori dalla contesa elettorale, inseguire un accordo con i grillini di volta in volta (stile Sicilia) è “demenziale”, non solo perché ci vuole qualcuno che voti la fiducia e perché si tratta di un meccanismo che non può durare, ma perché Grillo costringerebbe ad accettare alcune proposte che ci esporrebbero a pericoli economici e relazionali, oltre che al ridicolo.
Dunque, se si vuole evitare che torni “la tempesta sui mercati nel timore di un risveglio della crisi del debito di un’eurozona nuovamente debole, dopo un sonno durato mesi” (parole del Wall Street Journal), occorre decidere in fretta quale strada prendere: tentare di durare, con il rischio di una (ri)caduta che sarebbe letale, o cercare un accordo “minimo” e temporalmente definito (comunque breve, tipo 6 mesi) per preparare il Paese a nuove elezioni (su basi diverse)? Io credo che la seconda opzione rappresenti il male minore. E credo che sia praticabile con un accordo solo tra Pd e Pdl (no Grillo, il Centro, come dice D’Alema, non è indispensabile), che devono trovare subito un’intesa sui collegi uninominali, a turno semplice (meglio) o doppio (va bene uguale), per riformare la legge elettorale, e devono riconfermare Napolitano al Quirinale. Il quale nel frattempo potrebbe dimettersi in modo da accorciare i tempi di rinomina (rispetto a maggio). Accordo che deve essere trovato immediatamente, senza indugio istituzionale alcuno, se davvero si vuole salvare il Paese. E per farlo si potrebbe addirittura usare il regime di “disbrigo degli affari correnti” in cui è tuttora funzionante il governo Monti. Certo, il parlamento ancora non c’è – a proposito, si riformino anche le procedure parlamentari che ci obbligano a buttare via un oltre mese di tempo dopo le elezioni – ma la riforma elettorale, condivisa con Pd e Pdl, potrebbe assumere i connotati di un documento politico approvato in consiglio dei ministri che diventerebbe un lascito per il governo “a termine” cui si darà vita una volta sistemate le Camere.
Ma perché la mossa funzioni, bloccando quel “passo verso l’ignoto” di cui parla il Financial Times e distraendo gli occhi di Moody’s da quell’incertezza e instabilità politica che potrebbe indurla a declassarci, c’è bisogno di altre due cose. La prima è l’avvio di una destrutturazione “bilanciata” dei due partiti della “grande coalizione”, con relativo ricambio della classe dirigente. In fondo, la Seconda Repubblica e il bipolarismo armato sono finiti con le elezioni, e Berlusconi e Bersani hanno perso 10 milioni di voti (rispettivamente 6 e 4): è abbastanza per lasciare ad altri il compito di aprire una stagione nuova. E poi se c’è Tosi che vuole lasciare la Lega ai nostalgici di Bossi per fare una Cdu italiana, perché altri non dovrebbero provarci a fare un partito dei moderati e uno dei riformisti che siano protagonisti della nascita della Terza Repubblica? Per creare la quale – e qui siamo alla seconda cosa indispensabile di questo passaggio così difficile della vita repubblicana – occorre arrivare ad una nuova Assemblea Costituente. La cui convocazione deve essere il vero “scopo” del governo che verrà e del rinnovo del mandato di Napolitano. Scommettiamo che così i mercati s’acquietano, lo spread si ridimensiona e il rating resta invariato?

Fonte: Il Foglio del 1 marzo 2013

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