• venerdì , 22 Novembre 2024

Industriali:prendi i soldi e non investire

Altro che articolo 18, altro che condizioni contrattuali. L’industria italiana se la passa male e la produttività declina perché gli imprenditori non investono, e mentre i concorrenti innovano loro lasciano invecchiare impianti e tecnologie e usano quasi tutti gli utili – e una parte dei soldi per gli ammortamenti – per distribuire dividendi sopra la media internazionale.
Potrebbe essere un’invettiva del “sindacato antagonista”, invece sono i risultati di una serissima ricerca di Riccardo Gallo, un economista che nell’industria ha svolto molti incarichi operativi. Gallo l’ha presentata in una sede autorevole, la lezione inaugurale del master in management, innovazione e ingegneria dei servizi (Mains) della Scuola Superiore S. Anna di Pisa.
La ricerca di Gallo contraddice anche due convinzioni generalmente accettate. La prima è che la produttività sia ferma da anni. Invece il valore aggiunto per occupato nell’industria (comprese le costruzioni) è cresciuto fra il 1993 e il 2007 a una media del 2% annuo, e solo da allora ha cominciato a crollare. Il fatto comunque non è positivo come potrebbe sembrare: negli ultimi vent’anni il valore aggiunto dell’industria è diminuito dell’1,5% a prezzi costanti; ma ancor di più sono calati gli occupati (-22,4%) e dunque la produttività, che si misura in valore aggiunto per dipendente, è aumentata.
In secondo luogo, non è vero che la crescita sia frenata da una insufficiente disponibilità di credito. Nel periodo osservato i debiti finanziari delle imprese industriali medie e grandi non aumentano, anzi in molti casi diminuiscono se riferiti al totale del passivo. In altre parole, quello che non va ai dividendi viene usato per ridurre i debiti e a spendere per innovare non si pensa proprio.
I grandi assenti sono proprio gli investimenti. Poco dopo l’introduzione dell’euro le imprese hanno quasi smesso di farli: dal 2004 sono stati inferiori all’autofinanziamento, “già reso bassissimo dalla compressione degli ammortamenti e dalla distribuzione degli utili”. La “strategia” se così si può chiamare, è paragonabile a quella di chi sega il ramo sul quale è seduto: semplicemente, sono stati lasciati invecchiare gli impianti. I dati sono impressionanti. Nel 2003 si accantonavano fondi per ammortizzare il patrimonio tecnico in 16,4 anni: tanto, dunque, si pensava che dovessero funzionare gli impianti prima di cambiarli. Un dato di poco superiore alla media delle maggiori multinazionali. Nel 2010 gli ammortamenti presuppongono che gli impianti debbano durare ben 26,4 anni.
Ma il dato è ancor più grave, perché nel frattempo i concorrenti esteri non sono rimasti fermi. Da poco meno di 14 anni all’inizio del periodo sono scesi a meno di 13 nel 2009 (ultimi dati disponibili). Il differenziale già ci vedeva in svantaggio, ma di poco: ora è diventato un abisso, gli imprenditori italiani pensano di poter sostenere la concorrenza con impianti vecchi il doppio di quelli esteri.
Riducendo al lumicino investimenti (a prezzi 2000, nel 2009 sono crollati di oltre il 35% rispetto al ‘92) e ammortamenti le imprese hanno potuto far apparire nei bilanci una redditività media delle vendite al 5%, non lontana dall’8% minimo delle multinazionali. Ma, sottolinea Gallo, se gli ammortamenti fossero stati attuati nella misura dei concorrenti, “i bilanci avrebbero chiuso a mala pena in pareggio”.
L’unica attenuante che le imprese possono invocare è che da noi il fisco pesa di più: circa il 41% sull’imponibile nella media degli ultimi 20 anni, contro il 33% delle multinazionali straniere. Ma se la risposta è tirare i remi in barca, certo non si va lontano.
Per sollecitare le imprese industriali a reinvestire gli utili e non a distribuirli, Gallo propone che nei provvedimenti per lo sviluppo il governo introduca una norma che imponga agli amministratori di presentare ai soci, con l’avallo del collegio sindacale e assieme al bilancio consuntivo, una relazione sulle prospettive delle società, sulle opportunità di mercato, sugli investimenti da fare e sul fabbisogno finanziario da coprire lasciando utili a riserva.

Fonte: Repubblica 11 ottobre 2011

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