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In Europa solo Berlino segue la strada americana

Le buone notizie sul declino della disoccupazione americana vanno oltre il dato di ieri: il 7,5%, cioè il più basso dalla fine del 2008. Economisti di Brookings prevedono infatti che il tasso scenda al 7% entro fine 2013. La vera buona notizia è che per la prima volta il calo non dipende dal minor numero di lavoratori che, scoraggiati, rinunciano a cercare lavoro ed escono dalle statistiche dei disoccupati. Prima di essere rassicurati sulla ripresa americana bisognerà attendere qualche mese.
Gli investimenti manifatturieri sono deboli. La Fed vuole capire se si tratta solo di un normale ricorso alle scorte o di riluttanza a investire. Se come è probabile, i segnali positivi saranno confermati si aprirà poi un dilemma politico: la ripresa è forte nonostante il bilancio pubblico sia paralizzato dallo scontro politico, così i mercati potrebbero preoccuparsi dell’avvio della exit strategy della Fed dalle politiche di liquidità illimitata. Il compromesso verrebbe da una strategia credibile di rientro del debito pubblico che consentirebbe di prolungare l’accomodamento monetario. Questa strategia, simile a quella europea, toglie margini ai bilanci pubblici per contrastare la diseguaglianza e contiene quindi elementi intrinseci di debolezza politica ed economica.
È proprio la diseguaglianza che avvicina il modello americano a quello tedesco, l’altro Paese che sta riducendo la disoccupazione, in controtendenza col resto d’Europa. Anche in questo caso ci sono elementi nascosti di debolezza. Fa parte del “nuovo cinismo” considerare la Germania vicina alla piena occupazione. Un modo di pensare che solo vent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile nella cultura di quel paese. È vero che in Germania la disoccupazione è ai minimi dagli anni Novanta. Ma ai tre milioni di disoccupati non vengono aggiunti il milione di lavoratori impegnati nei corsi di formazione o nei cosiddetti “lavori da un euro”. Altri sette milioni di tedeschi lavorano nei “mini-jobs” pagati meno di 400 euro al mese. Il numero dei sotto-occupati è quindi altissimo. Se si tenesse conto di questo esercito di riserva si riscriverebbe in toni meno eroici la storia del rinascimento industriale tedesco. Un rinascimento a cui continua a mancare il vero testimone di ogni politica economica di successo: gli investimenti domestici, da dieci anni i più bassi d’Europa.
Uno studio di Brookings in uscita (“Germany: global miracle and European challenge”) spiega che il livello di diseguaglianza tra i redditi dei tedeschi è superiore a quello di diversi Stati americani. I recenti dati sulla ricchezza degli europei mostrano che le disuguaglianze in Germania sono le più elevate nell’area euro. Il livello di tolleranza nei confronti della diseguaglianza si avvicina a quello americano, dove il 64% si definisce poco interessato al problema.
In parte è la conseguenza, statistica e politica, dell’unificazione tedesca. Ma un’altra spiegazione è che tra gli 11 milioni di lavoratori disoccupati o mal pagati ci sia una presenza più che proporzionale di stranieri o di immigrati, estranei alle scelte politiche. Solo così si spiega il silenzio dei politici tedeschi, compresi i socialdemocratici, nei confronti della diseguaglianza. Un silenzio che fa il paio con il silenzio dell’elite industriale e finanziaria sulla realtà della crisi europea. Quello che era il Paese a più spiccata sensibilità sociale dell’intero Occidente oggi non vede, non sente e non parla più. Dobbiamo concludere che come anche in Europa è la diseguaglianza a ridurre la disoccupazione? Per fortuna la spiegazione è diversa. Ma non tanto più rassicurante: l’occupazione tedesca beneficia dell’avanzo di parte corrente che è conseguenza di un altra forma di diseguaglianza, quella nei conti con l’estero. Anch’essa ha potenti effetti redistributivi dei redditi. Anch’essa – colpendo non elettori – non viene riconosciuta.

Fonte: Sole 24 ore del 4 maggio 2013

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