• sabato , 2 Novembre 2024

In auto senza gli Agnelli

Se il gruppo Fiat ha distrutto valore per circa 60 miliardi di euro negli ultimi 22 anni, in gran parte per colpa dell’auto, vuol dire che la famiglia, a cui fa capo il 10 per cento dell’azienda, ha bruciato oltre 6 miliardi di risorse. In pratica, il patrimonio del clan Agnelli si è ridotto a meno della metà di quello che era nel 1987, in termini reali.
Questo quadro lo dipinge un esponente della dinastia torinese, disposto a ragionare di numeri e a fare un bilancio dell’impresa di famiglia ma non a essere citato. Troppo delicato il momento, e nessuna voglia di accendere la miccia della polemica: la compagine famigliare ha dato, all’unanimità, il suo appoggio a Sergio Marchionne e all’azione del capofamiglia prescelto dall’avvocato, il trentatreenne John Elkann. La missione del primo è quella di “mettere in sicurezza” l’impresa Fiat, cioè di darle un futuro meno precario di quello a cui è condannata restando sola; la strategia del secondo è quella di traghettare la dinastia imprenditoriale verso lidi diversi dall’auto, senza che questo appaia una fuga, una disfatta, il tradimento di una storia famigliare. Senza perderci la faccia, insomma.
Il passaggio cruciale della storia degli Agnelli in questa fase è proprio questo: spogliarsi di una identità che vedeva i signori di Torino titolari della più potente impresa industriale italiana, e quindi grandi datori di lavoro, interpreti dell’orgoglio nazionale all’estero e protagonisti dell’agenda economico-politica del Paese, per diventare qualcos’altro. Ma cosa? Dei ricchi investitori in giro per il mondo, a caccia di affari che fanno fruttare il proprio capitale, in breve dei finanzieri, come è avvenuto per tante altre importanti dynasty, dai Rockefeller ai Wallenberg?
La ricerca di questa nuova identità, volontariamente o no, è già cominciata. Sul piano dell’egemonia, intanto, la Fiat non conta più come una volta. «È un’azienda che non parla più di politica, che anche sul piano sindacale si è sottratta alle liturgie del passato, quando le sue lotte facevano scuola», afferma lo storico Giuseppe Berta: «In complesso, è meno “potenza”. E anche la famiglia Agnelli ha una visibilità e una risonanza molto meno vistosa di un tempo». La nuova “stagione di opacità”, come la chiama Berta, è certo il risultato dei cattivi risultati dell’impresa, che hanno tracciato una lunga strada di bilanci in rosso, ma non solo. La scomparsa dell’Avvocato, poi di suo fratello Umberto e ora della sorella Susanna, insomma l’avvicendamento generazionale, ha lasciato un vuoto che non è stato riempito da nessuno. Chi tiene oggi il timone, nella Exor che è la finanziaria di famiglia, si chiama Elkann. I figli e i nipoti che oggi sono i titolari delle azioni, dai Rattazzi ai Teodorani, dai Brandolini ai Nasi, hanno posti in consiglio e a volte ruoli manageriali, come Edoardo Teodorani Fabbri che lavora in Cnh, o affari in proprio come Lupo Rattazzi, ma si sono votati tutti a una presenza discreta e corale sulle vicende industrial-famigliari. Solo Andrea Agnelli, unico maschio a portare ancora il cognome dinastico, non ha mai nascosto l’idea che la famiglia possa prima o poi fare un passo indietro, e ha ammesso in passato differenze caratteriali e di vedute con il cugino John.
E mentre i fratelli Gianni e Umberto erano abituati a “tenere corte”, erano cioè circondati da manager che avevano i propri riferimenti con questo o quel rappresentante della famiglia, ora tutto ciò è stato spazzato dal ciclone Marchionne. Che ha fatto fuori la prima linea dei manager e stabilito nuove regole, così sintetizzate da chi le osserva da vicino: «Si governa Fiat con l’appoggio dell’azionista, non in combutta con lui. E Marchionne non va a raccogliere il parere di Sant’Albano (amministratore delegato della finanziaria Exor, ndr.) prima di fare qualcosa». Brutale, ma rende l’idea.
Insomma, nella galassia Fiat sono state iniettate alte dosi di normalizzazione che prima il governo dinastico non consentiva. Questo avrebbe dovuto rendere più sereni i rapporti esterni. Invece, la forza magnetica che la Fiat aveva nei confronti dell’establishment, sia quello politico che quello finanziario, si è appannata. Lo testimonia l’atteggiamento tiepido che le banche hanno avuto nella vicenda Opel e, ora che Intesa e Unicredit sono state nominate advisor per lo scorporo della Fiat Auto e per il suo collocamento in Borsa, hanno continuato a ribadire di essere disposte a dare altre linee di credito, ma di comprare azioni non se ne parla. E lo testimonia anche l’atteggiamento tenuto dalla politica nella vicenda Opel. Nonostante le richieste fatte arrivare da Sergio Marchionne al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, il governo italiano è stato assente.
La nuova solitudine del clan, di fronte alle scelte imprenditoriali che lo aspettano, potrebbe anche essere un sollievo. Come ha notato il “Financial Times”, finora le grandi famiglie mondiali dell’auto sono sopravvissute (al contrario di altre dinastie impegnate in altri settori) perché hanno sempre resistito alle fusioni, che avrebbero diluito le proprie partecipazioni ma anche salvato le attività: ora però i nodi sono venuti al pettine per tutte. E l’addio all’auto degli Agnelli, o almeno un progressivo distacco, che fino a ieri sembrava un’enormità, oggi è una strategia concreta. «Macché addio, ieri la Fiat stava per conto suo e ora si è messa in gioco e prova a correre con gli altri», si infiamma il vicesindaco di Torino Tom D’Alessandri.
Resta il fatto che dopo aver sacrificato il patrimonio in nome dell’auto, ora la famiglia è a un bivio. Gli azionisti hanno tutti grande fiducia in Marchionne, che ha riportato i conti in equilibrio. Ma se saranno chiamati a contribuire di nuovo, come reagiranno? Già: il succo dell’operazione Marchionne, l’architrave del blitz che lo ha portato a conquistare la Chrysler e poi a puntare al ramo europeo di Gm, cioè Opel, è sempre stato “zero cash”. Alleanze-acquisizioni senza soldi, solo scambio di tecnologie e di know-how. Ma si tratta comunque di una campagna di conquista in chiave difensiva: per dare un futuro a Fiat serve arrivare a una stazza industriale da sei milioni di auto, con almeno un milione di vetture per ogni piattaforma produttiva. Fiat più Chrysler sono lontane da quella dimensione. E non è stato ancora affrontato il delicatissimo tema del ridimensionamento in Italia, dove si stima che ci siano 8-9 mila posti di lavoro di troppo. La “messa in sicurezza” è dunque ancora lontana.
Per questo la famiglia ha incominciato a guardarsi nel portafoglio, e a fare due conti. Gli azionisti riuniti nel clan hanno sborsato nell’ultimo decennio circa 2 miliardi di euro attraverso le proprie holding per fronteggiare i buchi dell’auto; di fare altri sforzi non ne hanno tanta voglia. Non solo: l’incertezza sull’auto paralizza anche i piani di espansione alternativa. La Exor, la holding guidata da John Elkann che possiede il 30 per cento delle azioni Fiat Group e che è il cuore della nuova strategia imprenditoriale rivolta ai nuovi business, è di fatto impiombata dall’auto. Se è vero che la metà del suo valore patrimoniale è nelle quattro ruote, altrettanto vero è che questo fa sì che dal Lingotto arrivino inviti a non correre troppi rischi su altri fronti, a non disperdere energie in nuova avventure, insomma a conservare le munizioni se dovessero arrivare altri tempi difficili. O le buone occasioni. Come potrebbe essere un’altra avventura tedesca: il piano B di Marchionne potrebbe infatti mettere nel mirino la Bmw.
Anche se gli asset di Gm in Sudamerica gli stanno sempre nel cuore, il manager abruzzo-canadese ha preso atto che nella disfatta Opel hanno giocato, oltre al resto, alcuni aspetti psicologici: la Gm non ha mandato giù la sua avventura torinese, quando era entrata anni fa in Fiat come futuro padrone e poi uscita pagando un assegno di un miliardo e mezzo. Dunque è necessario non guardarsi troppo indietro e trovare rapidamente un altro alleato per Fiat. La francese Peugeot si sovrappone molto con la sua produzione a quella di Torino, e oltretutto ha ricevuto una ricca dote dal governo Sarkozy: questo crea una asimmetria sciovinista che i francesi farebbero contare pesantemente. Bmw, invece, fa automobili che la Fiat non fa, oggi guadagna ma in futuro chissà, ed è controllata da una famiglia, i Quandt, con un pacchetto del 46,6 per cento. Dunque padroni in casa propria e liberi di muoversi senza condizionamenti politici.
I tempi della metamorfosi degli Agnelli sono quindi legati alla soluzione per Fiat. Finché l’auto rischia di bruciare denaro, investire in altre direzioni non si può. Il miliardo che Exor ha in cassa è a fronte di un miliardo di debito, quindi il margine è stretto. Invece la giovane finanziaria che ha fuso Ifi e Ifil ha molta voglia di volare. Ma mentre Gianluigi Gabetti, tuttora presidente onorario, assecondava tutti i desiderata dell’Avvocato, ora la selezione è diventata più rigorosa. Un comitato strategico nuovo di zecca, formato da tre “professionisti dell’investimento” (una donna, Christine Morin-Postel, e due uomini, Victor Bishoff e Antoine Schwartz), sono sguinzagliati in cerca di nuovi affari e riferiscono a Elkann ogni mese e mezzo, poi un team di 15 analisti li mette sotto la lente d’ingrandimento per valutarli. Certo, finora l’investimento in Cushman &Wakefield, la società immobiliare con l’ambizione di diventare prima a livello mondiale, ha inciampato sulla crisi del mattone; funziona bene la Sgs (servizi alle imprese), il più grosso investimento dopo la Fiat; è stato aperto un nuovo fronte puntando al settore della produzione tv per produrre format (Banijay Holding). «Non facciamo new economy», si inalberano in Exor, «c’è una forte matrice imprenditoriale nelle nostre scelte: non è solo finanza, non vogliamo solo staccare delle cedole».
Come dice un suo giovane esponente: «La famiglia è coesa finché gli affari vanno bene». E la famiglia sa che, se si è salvata dal precipizio per merito di Marchionne, che ha invertito l’emorragia di denaro negli ultimi due anni, ora deve gestire il passo indietro dall’auto stessa, e tutto il resto è acqua fresca. Lo spettro della perdita di controllo non fa paura più di tanto. Sia perché gli Agnelli hanno già rischiato di perdere tutto, e sono stati a un passo dal disastro senza ritorno. Sia perché, come fa notare un erede, «anche Bill Gates controlla Microsoft con il 10 per cento».
Allora non resta che quotare Fiat Auto, come si è deciso di fare nel consiglio di famiglia di inizio maggio. Questo significherà dunque una “diluizione”, come si dice in gergo, della loro partecipazione. Ma vuole soprattutto dire che è al mercato che gli Agnelli si rivolgono per salvare l’industria delle quattro ruote torinese. Sarà il mercato a dire se se la sente ancora.

Fonte: L'Espresso del 6 giugno 2009

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