• venerdì , 22 Novembre 2024

IMMIGRATI, UN’OPPORTUNITÀ PER L’ITALIA

L’Italia ha bisogno di immigrati dall’estero. Su questa realtà si sono sviluppate da anni infuocate polemiche e perfino tensioni a livello locale, ma le dinamiche demografica ed economica sono inesorabili nel portarci a questa conclusione. Per un Paese che è in piena fase di invecchiamento, con una popolazione di anziani (oltre i 65 anni) che supera il 20% della popolazione e continuerà a salire, un basso tasso di fecondità (1,4 figli per donna, tra i più modesti in Europa), un’economia da anni stagnante, e le finanze pubbliche dissestate, non vi è dubbio che l’immigrazione, soprattutto se di buona qualità formativa, è un anello essenziale per risvegliare la nostra economia e anche la società dal torpore in cui è caduta.
Sono gli immigrati che da anni imprimono la spinta maggiore all’espansione della popolazione, dato che quella di origine italiana tende a diminuire (-107 mila unità nel 2010), mentre quella straniera continua ad avanzare (+363 mila), nonostante il grave deteriorarsi delle condizioni economiche nell’ultimo triennio. La loro spinta inoltre non si esaurirà rapidamente perché la loro prole aumenta a un tasso doppio di quella autoctona e il loro inserimento in attività produttive è già consolidato. Quei 4,6 milioni di stranieri regolarmente residenti nel Paese (7,5% della popolazione) non rappresentano infatti un peso per la società, ma una risorsa preziosa, che va meglio valorizzata in quanto è mediamente più giovane (32 anni contro 44 per gli italiani), è già inserita nel mondo del lavoro e contribuisce in misura sostanziale a formare il prodotto totale interno.
Gli scettici, che albergano principalmente nei ceti meno istruiti e meno abbienti della nostra società, obiettano che gli immigrati sottraggono opportunità di lavoro agli italiani, deprimono le retribuzioni, propendono maggiormente a violare le leggi, sfuggono al pagamento di imposte e contribuzioni sociali. Benché il 37 % dei detenuti sia attualmente di origine straniera, in realtà le accuse hanno scarso fondamento ed appaiono solo come un modo per dare sfogo a quelle paure, o alla latente vena xenofoba o di avversione al diverso, che serpeggiano in ogni essere umano.
Gli stranieri infatti contribuiscono per circa il 9% al valore aggiunto del Paese e mostrano un attivismo nettamente superiore agli italiani nell’acquisire un lavoro. Il loro tasso di occupazione (63,1% nel 2010) supera nettamente quello degli italiani (56,3%), particolarmente tra gli uomini (76,2% contro 66,9%), e si colloca ai livelli più alti nell’UE. Questo andamento appare tanto più significativo se si considera che nell’ultima recessione economica il ridimensionamento della schiera di occupati ha colpito più gli stranieri che gli italiani, smentendo le facili illazioni sulla loro minaccia per il lavoro italiano.
Si potrebbe anzi dire che in fatto di occupazione il loro ruolo appare complementare a quello dei nostri sotto diversi aspetti. Ad esempio, sono molto più presenti nelle categorie degli “operai ed artigiani” (39%) e in quelle non-qualificate (38%) che in quelle qualificate e tra gli impiegati, dove si addensano i due terzi degli italiani. Parimenti, si concentrano in settori produttivi maturi, come l’agricoltura (4,3%), le costruzioni (17%) e i servizi alle famiglie (19%), più che nel resto dell’industria e dei servizi, in cui gli italiani sono relativamente più presenti. Nel manifatturiero tuttavia la loro concentrazione è in linea con quella degli italiani, segno che sono in grado di adattarsi alle tecnologie adottate nella nostra industria e nell’artigianato. Questo risultato è anche frutto di una specifica composizione dei paesi di origine che si riflette sul loro livello di istruzione e di formazione: provengono in maggioranza dall’Europa centrale ed orientale, Marocco, Cina.
Si potrebbe anzi affermare che gli stranieri rappresentano una risorsa in larga parte sottoutilizzata sul piano professionale, dato che mostrano un livello d’istruzione e culturale superiore alle mansioni svolte. Secondo l’ISTAT, ben il 42,3% degli occupati stranieri svolge mansioni al di sotto delle capacità professionali acquisite nella loro formazione, in stridente contrasto con l’analogo indicatore per gli italiani (19%), e la durata di tale sottoutilizzo è molto più lunga, segno di una loro scarsa mobilità in ascesa in termini di qualità occupazionale.
La disparità si estende anche ai livelli retributivi, che per gli stranieri sono mediamente più bassi del 24% rispetto a quelli degli italiani, una disparità che aumenta quanto più alto è il grado d’istruzione del lavoratore.
Pertanto, si può affermare che complessivamente con l’immigrazione l’Italia può disporre di un capitale umano e di una risorsa di lavoro relativamente più giovane, produttiva, complementare alle preferenze occupazionali degli italiani e per giunta a buon mercato. Ma in qual modo questo capitale beneficia l’economia?
Innanzitutto, l’apporto che gli immigrati danno all’incremento demografico si traduce immediatamente in un impulso alla crescita perché determina un’espansione del prodotto interno. Più sono le forze di lavoro attive e più ampio è il reddito che si genera. Certamente le rimesse degli immigrati ai paesi d’origine, salite nel 2010 a 6 miliardi di euro, sono un drenaggio di risorse, ma rappresentano ben poca cosa di fronte ai 137 miliardi di PIL che hanno realizzato nello stesso anno.
A trarne beneficio sono tanto il fisco italiano, che incassa da loro mediamente 5,5 miliardi all’anno, quanto il sistema previdenziale, che riceve contribuzioni per 5 miliardi mentre esborsa solo una piccola frazione di questo importo per prestazioni pensionistiche, data la giovane età di queste forze. Secondo alcune stime, il conto netto è finora positivo per l’erario in misura che va da 1,5 miliardi a cifre molto superiori.
Tuttavia questo conteggio di costi e benefici appare come un approccio riduttivo e sterile se visto in un’ottica Paese, perché quel che conta è come la nostra società si possa sviluppare con questo apporto umano di capacità, d’intelligenza, di potenziale per creare nuova ricchezza.
Ad esempio, in una società come la nostra che ha maturato una notevole avversione al rischio per via del suo invecchiamento, l’innesto di immigrati che sono generalmente più aperti ad assumere rischi è un utile fattore di rinnovamento. Una maggiore propensione al rischio, che si manifesta in uno spirito imprenditoriale che si realizza nell’avvio di nuove imprese, nonostante le maggiori difficoltà a finanziarsi e a superare le barriere burocratiche. Un’indagine della Fondazione Ethnoland stima almeno 165 mila imprenditori di origine straniera, con più di 200 mila addetti.
Uno studio recente del CNEL traccia anche il profilo medio di questi imprenditori: sono motivati, inclini al rischio, ben integrati nel tessuto imprenditoriale, vivono nel Paese da circa 18 anni, per due terzi hanno avviato l’azienda solo con risorse proprie, hanno famiglie più numerose, intrattengono rapporti commerciali soprattutto con italiani e prestano grande attenzione alla reputazione come fattore di successo economico. In breve, i loro problemi imprenditoriali non sono dissimili da quelli dei loro analoghi italiani, ossia devono espandere le loro aziende, competere strenuamente, puntare sulla qualità.
Oltre all’imprenditoria, il sistema di welfare sociale del Paese trae grande aiuto dal coinvolgimento degli immigrati: la loro assistenza a persone e famiglie è divenuta insostituibile per la crescente schiera di anziani, costituendo pure un veicolo per l’integrazione sociale e culturale. L’immigrazione serve anche ad aprire nuovi flussi commerciali e di investimento con l’estero, allargando la proiezione dell’economia.
Tutti questi fattori mostrano quanto sia importante valorizzare meglio l’immigrazione, ma in qual modo? Non basta una semplice politica di parità nelle opportunità, di lotta alle discriminazioni, di selezione degli arrivi e di assistenza ai meno dotati, come si è finora realizzata nel nostro Paese. Un simile approccio è decisamente miope, in quanto manca di una prospettiva sul futuro, e produce scarsi frutti, nel senso che lascia molte risorse utilizzate poco, o male, o null’affatto.
Occorre invece puntare su una politica attiva di integrazione nei tre campi principali: economico, sociale e culturale, pur nel rispetto delle diversità di cultura e tradizioni. E non si dica che il Paese non può impegnarsi in questa fase in nuove spese, dato che non si tratta tanto di mobilitare maggiori fondi, quanto di usare diversamente quanto oggi si spende per accoglierli, istruirli, o assisterli.
In particolare, bisogna innanzitutto impegnare gli immigrati nel condividere i valori e i principi cardine della nostra società, del comune stare insieme in uno Stato che ha accumulato un patrimonio di norme scritte e non scritte. A tal fine serve un migliore investimento nella formazione di base del nuovo cittadino, mobilitando la scuola, il mondo del lavoro e la convivenza sociale a muoversi coerentemente in questa direzione. Vale anche investire nell’assecondare l’osmosi culturale nei comportamenti, nel vivere quotidiano, nel partecipare a una comune vita sociale, che ha anche una dimensione politica e di rappresentanza nelle scelte del territorio e del Paese. In questo ambito, un aiuto va loro dato nei primi anni per risolvere il problema di disporre di un’abitazione degna del vivere civile, visto che l’ambiente abitativo condiziona i comportamenti individuali e sociali.
In campo economico, la priorità va assegnata alla formazione al lavoro e all’imprenditoria, a facilitare il rapporto con l’opprimente burocrazia, a esprimere una leale concorrenza sui mercati, a superare lo scoglio del reperire mezzi finanziari al pari degli italiani.
In mancanza di un simile spirito ed un atteggiamento nuovo, il Paese è destinato a continuare a vivere l’immigrazione come un problema ostico e una fonte di risentimenti, piuttosto che come la feconda opportunità che il mondo gli offre.

Fonte: Articolo del 24 dicembre 2011

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