Caro Direttore,
spesso anch’io, come Fubini, ho sostenuto la tesi che occorrerebbe “il vaccino dei privati nelle aziende”: in Senato negli anni “sprecati” dell’Ulivo; e poi in quelli ( sprecati anch’essi?) in cui nel Cda di Iride, l’odierna Iren, cercando di far prevalere i propositi liberalizzatori del sindaco di Torino sull’arcigna difesa della proprietà municipale del sindaco di Genova; e poi ancora in occasione dello sciagurato referendum sull’acqua. Gli obiettivi dichiarati erano efficienza e apertura al mercato, ma i ricordi di Tangentopoli erano troppo vivi per non vedere nella separazione dei ruoli il pubblico a decidere e verificare, il privato ad eseguire anche un mezzo per levare spazio alla corruzione.
Però non è che una medicina buona serva in tutte le malattie: serve anche in quella della cosiddetta Mafia Romana? Il sistema corruttivo della Buzzi & C. (userò convenzionalmente questo nome collettivo) si era progressivamente esteso, nel gran verminaio c’era di tutto, perfino il combustibile per navi inesistenti, ma aveva un suo business caratteristico, quello da cui era partito per infiltrarsi nella macchina amministrativa. Buzzi & C. non producevano elettricità, non guidavano autobus, non gestivano raccolta e smaltimento rifiuti. Il loro core business era fornire manodopera. Come le società di collocamento, tipo Adecco, Manpower. Con la differenza che quelle sono società di capitale, loro una onlus. E con un’altra differenza sostanziale: che quelle hanno lo scopo di far soldi, mentre Buzzi & C. dichiara di voler fare opere di bene, assistere ex carcerati, immigrati, di assistenza.
Non rientra quindi nel normale modello pubblico-privato, in cui l’amministrazione fa un capitolato di ciò che intende acquisire, indice una gara, assegna il lavoro: qui l’amministrazione vuole erogare soldi per aiutare i poveracci, Buzzi & C. gli fornisce i poveracci e li porta a tagliare l’erba ai giardinetti. E, come si sa, «la carità concima l’indigenza e arricchisce i lestofanti».
È un lavoro povero, con margini ridotti per assistiti e per assistenti, senza vere economia di scala, quasi pre-capitalistico. Nulla a che vedere con i bei tempi di Tangentopoli, quando si facevano ponti e gallerie, si dava la scalata ad aziende, si costruivano cattedrali nel deserto. Modesti quindi gli import dei bakshish: una delle cose più squallide è constatare quanto sia bassa la soglia di corrompibilità di politici e amministratori.
La Onlus di Buzzi & C. non è una struttura pubblica da privatizzare, è un’organizzazione che più privata di così non si può. Il “vaccino” non glielo si può iniettare direttamente. Va usato per una vasta campagna di immunizzazione, che coinvolga tutta l’amministrazione: se questa controlla e non gestisce, i suoi compiti diventano chiari, le sue linee di comando trasparenti, la sua dimensione gestibile. Il “vaccino” è il primo passo per la riforma della Pa, da decenni “il” problema del nostro Paese.
Non è purtroppo questa la reazione che ha innescato la scoperta della rete della Buzzi & C. Che è stata invece di cercare i limiti in cui circoscriverne la penetrazione ( le “mele marce” ), di identificarla con l’anomalia per antonomasia, la più classica ma anche la più distante, ( la mafia), da combattere con gli stessi sistemi, pene inasprite, prescrizioni allungate, ricorso ai whistleblower (li chiameremo collaboratori di onestà?). Neppure un accenno a considerare la “normalità” su cui cresce l’anormalità, le montagne di mele dentro cui alcune marciscono, la cultura del clan, del piccolo favore, dell’omertà. Nessun proposito concreto a mettere mano all’insolvenza cronica di questa gigantesca macchina, alla perversa economia aziendale in cui l’aumento dei costi del personale è il modo per assicurarsi il ripianamento dei disavanzi.
Fonte: La Repubblica - 23 Dicembre 2014