• mercoledì , 27 Novembre 2024

Il tormento di Jobs: “Alla fine della vita soltanto un clic”

Il biografo: ma voleva credere in Dio.Il caratteraccio.È vero, potrei essere più dolce, e di certo esiste un modo più delicato per gestire i rapporti con i miei dipendenti.Ma non sarei me stesso. Se una cosa non mi va, io lo dico in faccia. Capisco che è dura, ma così solo i migliori giocatori rimangono in squadra Il pensiero magico «Era un uomo razionale ma lasciava spazio anche alla spiritualità orientale»
«È ” fifty-fifty ” mi diceva. “Cinquanta e cinquanta. A volte credo che Dio esista. A volte no. Vorrei credere nella vita ultraterrena. Ma ho il timore che alla fine ci sia solo un tasto on-off. Un clic, la luce se ne va. E tu non ci sei più. Per questo non mi è mai piaciuto mettere tasti di accensione sui prodotti della Apple”». Walter Isaacson racconta al Corriere i tormenti di Steve Jobs, il suo interrogarsi sull’ aldilà. È la prima intervista concessa a un giornale italiano dopo aver consegnato all’ editore (in Italia Mondadori) la sua biografia del fondatore della Apple. Lo incontro a Washington, all’ Aspen, l’ istituto di cui è presidente, dopo essere stato direttore di Time e capo della Cnn. Parete di vetro a picco sulla rotatoria di Dupont Circle. Isaacson è in ritardo. Lo sento parlare al telefono nella stanza a fianco. Ci divide una sottile pannello prefabbricato. Isaacson fa lunghe pause,ogni tanto usa espressioni d’incoraggiamento, alla fine saluta con voce calda. Si affaccia sulla porta con un sorriso mesto: «Scusi il ritardo. Ero con una persona della famiglia. Piangeva. È curioso: lui temeva di essere un estraneo per i suoi cari. E invece ha lasciato un vuoto enorme». Abbiamo già letto molte anticipazioni del suo libro, ma poco del temperamento irascibile di Jobs, i tratti duri del suo carattere. Quanto a Dio, l’ aveva evocato parlando di musica. Lui, che aveva riempito il suo iPod coi brani di Bob Dylan, i Beatles, Joan Baez, i Rolling Stones e Yo-Yo Ma, una volta disse al violoncellista franco-cinese: «Le tue esecuzioni sono la migliore prova dell’ esistenza di Dio perché non credo che un essere umano da solo possa fare tutto questo». «Con me Steve cominciò a parlare di Dio man mano che prendevamo confidenza e che la malattia riguadagnava terreno. Non era paura, si interrogava: “Voglio credere nella vita ultraterrena” mi diceva, “perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più”. Poi, però, veniva assalito dal dubbio che alla fine della vita ci sia solo un ” off switch “». Jobs è stato un maestro di «leadership» ma anche aveva un temperamento aspro, un uomo spesso intrattabile. Anche lei è stato ed è un leader. Ci sono state scintille nel vostro rapporto? Su «Time » lei ha scritto della sua grande intensità, ma anche di un uomo inseguito da ossessioni e demoni che aveva una visione binaria del mondo. «Sì, è vero, ho parlato della dicotomia eroe-stronzo: per lui eri una cosa o l’ altra, senza nulla nel mezzo. E magari ti faceva passare da una categoria all’ altra nell’ arco della stessa giornata. Molti amici mi avevano sconsigliato di imbarcarmi in questa avventura: avrai davanti un uomo impossibile, mi dicevano. Cortese e poi, d’ un tratto, furioso. Beh, è successo una sola volta: quando gli portai un progetto di copertina del libro sul quale stava lavorando l’ editore. Con un logo della Apple e il titolo “iSteve”. Lui si imbestialì, disse che faceva schifo, si mise a urlare che non avrebbe più collaborato alla biografia se non avesse avuto voce in capitolo sulla veste grafica del libro. Non fu difficile accontentarlo, visto il suo grande talento per il design». Oltre quaranta incontri, anni passati a studiarlo. Il suo giudizio finale sull’ uomo? «Mi piaceva. Con tutte le sue asperità, le ossessioni, i demoni che lo divoravano, mi piaceva. E questo è un problema. Lei lo sa: un giornalista dovrebbe sempre mantenere un certo distacco. A maggior ragione un biografo. Ma con lui è stato diverso. Intanto per la incredibile ricchezza della sua storia. Che lui spiegava con un semplice “mi piace vivere all’ intersezione tra umanità e tecnologia”. E poi c’ era l’ aspetto carismatico, ipnotizzante, della sua personalità, l’ aura che si diffondeva intorno a lui. Infine, mi ha disarmato con la sua apertura. Vede, un biografo alla fine del suo lavoro arriva comunque a conoscere solo uno spicchio – diciamo il 2 per cento – del personaggio che descrive. A me è successo con Benjamin Franklin e Albert Einstein, ma anche con Henry Kissinger che, pure, ho frequentato assiduamente. Con Steve è stato diverso: non aveva mai parlato del suo privato. Quando ha deciso di farlo, ha demolito tutti i muri. Ha voluto parlare per ore e ore di tutto: i suoi sentimenti, le sofferenze, le sue storie romantiche. Con lucidità e spesso in modo commovente. Alla fine ho avuto la sensazione di sapere tutto di lui, della sua natura intima. Di conoscerlo come me stesso. Non mi era mai capitato. Ed è, in qualche modo, sconvolgente». Abbiamo letto che nel vostro ultimo incontro le ha detto di essersi aperto perché voleva che i suoi figli lo conoscessero e lo comprendessero meglio. Si sentiva un cattivo padre? «Per essere il capo di una grande azienda, era un padre molto presente: non andava mai a “party” e ricevimenti, non accettava premi. Tutte le sere a casa, a cenare in cucina con la famiglia. Ma era assorbito dal suo lavoro: anche a tavola spesso si estraniava, seguiva i suoi pensieri. Amava i figli ma sentiva di non riuscire a comunicare bene con loro». Quando ha capito che i suoi giorni erano ormai contati? E come ha potuto, un uomo di tecnologia come lui, pensare per quasi un anno di combattere il cancro con le diete «vegan», l’ agopuntura e gli impacchi di qualche ciarlatano? «Ritorna la sua visione binaria del mondo. Steve era un uomo fondamentalmente razionale, ma il suo approccio analitico non era assoluto. A un certo punto lasciava spazio al ” magical thinking “: il pensiero magico sempre rimasto nel fondo della sua anima fin dagli anni delle esperienze giovanili in India, dell’ immersione nella spiritualità orientale, dell’ adesione al buddismo. Viene da qui anche l’ idea dell’ inviolabilità del corpo. Alla quale ha rinunciato solo dopo molti mesi di malattia. Sapeva di aver sbagliato, ma era fatto così: voleva l’ eccellenza delle terapie tradizionali – i migliori medici e chirurghi d’ America – ma al tempo stesso continuava a cercare alternative. È stato così fino alla fine. L’ ultima volta che ci siamo incontrati, quattro settimane prima della sua morte, sapeva che il suo destino era ormai segnato. Ma, contro le previsioni dei medici, era convinto di poter vivere ancora un anno. Mi hanno raccontato che il giorno prima della fine era ancora al lavoro sui progetti della Apple e convinto che avrebbe avuto il tempo di leggere la sua biografia. Una fiducia che ti spieghi solo col suo ” magical thinking “». In azienda, però, il pensiero magico non intaccava la sua durezza. Esigente coi suoi dipendenti fino a essere sprezzante. «Ne abbiamo parlato spesso. Dipendeva dalla sua ossessione per la perfezione. Era insofferente non solo della mediocrità, ma anche di tutto ciò che non raggiungeva l’ eccellenza. Mi diceva: “È vero, potrei essere più dolce e di certo esiste un modo più delicato per gestire i rapporti coi miei dipendenti. Ma non sarei me stesso. Se una cosa non mi va, io lo dico in faccia. Capisco che è dura, ma alla fine di questo processo solo i migliori giocatori rimangono in squadra. E quelli che restano sono intensamente leali”». Non andò così con John Sculley. Lo corteggiò, lo strappò alla Pepsi per farlo amministratore delegato della Apple e lui, dopo qualche anno, lo cacciò dalla sua azienda. «Un quarto di secolo dopo, Steve ha continuato a detestare Sculley e non solo come manager. Quando l’ aveva scelto, aveva visto in John anche la figura paterna che nella sua vita ha sempre cercato, dopo essere stato abbandonato in fasce dai genitori naturali. Quando Sculley lo tagliò fuori visse la cosa come un doppio tradimento». Molti giornalisti pensano che con l’ iPad Jobs abbia costruito una scialuppa di salvataggio per la stampa in crisi. Era davvero un suo obiettivo? «Sì, vedeva nell’ informazione giornalistica un presidio della democrazia. Considerava il New York Times un grande giornale e voleva salvarlo. Ha passato molto tempo a discutere con loro, ma anche col Wall Street Journal e Time , su come mantenere la redditività di questo business».

Fonte: Corriere della Sera del 24 maggio 2011

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